L'uomo per poter fare le sue telefonate in libertà arrivava in ufficio prima delle otto e si tratteneva anche dopo l'orario previsto dedicandosi a «una serie lunghissima di telefonate verso numerazioni non geografiche a valore aggiunto, traffico telefonico non attinente alle esigenze di servizio, non consentito e non autorizzato, utilizzando la linea dedicata al fax del reparto cui era addetto con un costo di oltre 8mila euro per la società».
Contro il licenziamento ratificato dalla Corte di Appello di Roma nel 2015, l'impiegato ha fatto ricorso alla Suprema Corte sostenendo che tutte quelle telefonate le aveva fatte per «fragilità psicologica» dovuta «a condotte vessatorie poste in essere dal datore di lavoro». Gli 'ermellini' hanno replicato che «non si vede neppure in astratto e sul piano della mera razionalità, come possa costituire una causa giustificativa del ripetuto uso illecito di mezzi aziendali a fini personali con un danno di una certa consistenza al datore di lavoro uno stato di sofferenza psicologica, anche attribuibile a quest'ultimo».
«Al lavoratore - prosegue il verdetto - certamente non poteva sfuggire il carattere illecito della condotta e certamente non può nemmeno ipotizzarsi una sorta di diritto di ritorsione per comportamenti pretesamente mobbizzanti».
Nel corso della causa non sono emerse tracce di mobbing e il lavoratore non ha nemmeno presentato documentazione medica sulla sua salute. In ogni caso, la Cassazione concorda con quanto affermato dalla Corte di Appello: «anche se si ammettesse che l'impiegato fosse affetto da depressione, nulla gli avrebbe impedito di ricorrere alle cure del caso» anzichè consolarsi con le «voci amiche».