Capo Rizzuto, dal mare riaffiora il tesoro del veliero naufragato nel '600. Ad affondarlo (forse) i pirati

foto SOPRINTENDENZA NAZIONALE PATRIMONIO SUBACQUEO
foto SOPRINTENDENZA NAZIONALE PATRIMONIO SUBACQUEO
di Laura Larcan
5 Minuti di Lettura
Martedì 21 Settembre 2021, 15:07

Per chi suona la campana? Viene quasi spontaneo prendere in prestito il titolo del capolavoro di Hemingway per il rebus storico che si sta cercando di risolvere a dieci metri di profondità, nelle acque calabresi di Capo Rizzuto, in provincia di Crotone. È qui che l’équipe di archeologi subacquei ha intercettato uno dei reperti antichi più insoliti e inaspettati: una grande campana fusa in bronzo, rivestita di spesse incrostazioni dovute ai secoli di oblio sul fondo marino, ma che lascia intuire delle decorazioni a rilievo. Forse addirittura gigli. Sorpresa nella sorpresa. La campana è solo l’ultimo tassello di un giacimento sommerso che i ricercatori della Soprintendenza nazionale per il Patrimonio culturale subacqueo, guidata da Barbara Davidde, hanno identificato come un imponente relitto datato tra la fine del XVII e l’inizio del XVIII secolo.

Capo Rizzuto, dal mare riaffiora il tesoro del veliero naufragato nel '600. Ad affondarlo (forse) i pirati

Il relitto della campana, come ormai lo chiamano gli archeo-sub, con l’emozione mista a soddisfazione nella voce. La loro testimonianza arriva alla fine di una giornata di immersioni ed esplorazioni subacquee, quando sono riusciti a riportare in superficie, insieme ai sommozzatori dei Carabinieri guidati dal maresciallo Domenico De Giorgio, la grande campana. Un tesoretto che si va ad aggiungere al corredo di nove cannoni sparsi caoticamente in un’area di bassifondi rocciosi, lì dove languono nel silenzio della profondità marina i resti del veliero naufragato. «Trovare la campana di una nave affondata è un’impresa rarissima, un evento eccezionale, perché è uno dei primi reperti che vengono sempre saccheggiati dopo un naufragio», racconta Barbara Davidde che sta guidando le operazioni in collaborazione con la Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per le province di Catanzaro e Crotone diretta da Fabrizio Sudano.

Pensare che gli archeo-sub hanno pianificato le esplorazioni in questa porzione del Parco marino (istituito nel 1991 con una estensione di ben 14.721 ettari) dopo che alcuni subacquei locali, esperti di quei fondali, avevano avvistato alcuni esemplari di cannoni. Da lì, sono iniziate le indagini subacquee che hanno mappato tutto il giacimento del relitto, rinvenendo diversi elementi metallici dello scafo.

Una zona che resta ora sorvegliata speciale dalle forze dell’ordine. Fino alla sorpresa della campana, recuperata nelle ultime ore. «Il reperto è stato ora trasportato dai Carabinieri del nucleo Tutela Patrimonio Culturale a Cosenza - spiega Davidde - e nelle prossime ore sarà affidata alle sapienti mani di un restauratore, esperto nel trattamento dei metalli, che opera all’interno del laboratorio della Soprintendenza di Cosenza. Dunque si resta in trepidante attesa delle risposte che l’esame di dettaglio e il restauro del reperto potranno fornire».

Già perché la campana può svelare molti dati significativi sull’identità e la storia del relitto. «Non di rado la campana recava l’anno di fusione e talvolta il marchio dell’artigiano che l’aveva realizzata - avverte l’archeologo subacqueo Salvatore Medaglia - A tali elementi potevano ulteriormente aggiungersi il nome della nave e l’emblema della marina o lo stemma dello stato sotto la cui bandiera navigava. Ecco perché è cosi importante per noi ricercatori nell’ottica di voler dare un’identità al relitto». Qual è il ruolo della campana in una nave? «Importantissimo, dal valore, se vogliamo, simbolico - riflette Medaglia - Appesa sul castello al tempo della marineria a vela, scandiva lo scorrere del tempo e avvertiva l’equipaggio dell’avvicendarsi delle varie attività giornaliere. Essa fungeva anche come segnalatore acustico, ad esempio in caso di nebbia o per un pericolo immediato».

Strategici per dare un inquadramento storico sono, però, anche i cannoni: «Siamo di fronte a pezzi d’artiglieria in ghisa di dimensioni e calibri differenti adagiati ora su un fondale di dieci metri di profondità - precisa Barbara Davidde - Intorno alle bocche da fuoco ad avancarica sono state scoperte anche due enormi ancore in ferro, la più grande della quale è lunga circa due metri». Ad aiutare gli archeologi sono proprio i materiali, perché dalla metà del ‘600 le bocche da fuoco in ghisa divennero l’armamento principale delle navi. Ma qual era l’identità del relitto e perché è naufragato? I gigli potrebbero offrire qualche indizio chiave sull’origine della nave, naufragata in un’area che era al centro di rotte di interessi commerciali.

Le cause del naufragio potrebbero essere ricondotte alla presenza di alcune secche che, almeno sino alla fine del Settecento, rappresentavano una vera e propria trappola per le sventurate imbarcazioni. Molti documenti d’archivio (atti notarili) conservano memoria dei naufragi avvenuti tra XVI e XIX secolo in questo tratto di mare. L’altra ipotesi, però, che convince molto di più in queste ore gli studiosi, è la pirateria, prevalentemente barbaresca, su questo tratto di Jonio calabrese. Che siamo di fronte alla fine tragica di un cruento abbordaggio? Potrebbe essere la pista giusta. «Non è un caso che il più famoso pirata ottomano, Ulug Alì Il rinnegato, noto come Uccialì, e al secolo Giovan Dionigi Galeni, era nativo proprio di queste contrade e che, rapito dai pirati di Barbarossa, si convertì e fece una lunga e gloriosa carriera nell’amministrazione ottomana», dice Barbara Davidde. Uccialì divenne grande ammiraglio dell’intera flotta ottomana. E di lui rimane a Istanbul la grande moschea Kılıç Ali Pascià.

© RIPRODUZIONE RISERVATA