Pc, laptop o smartphone: così la tecnologia ha trasformato le nostre case

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di Andrea Andrei
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Mercoledì 18 Novembre 2020, 11:46 - Ultimo aggiornamento: 16 Febbraio, 20:17

La conosciamo meglio di qualsiasi altro luogo. È uno dei nostri primi pensieri, ciò a cui i nostri sforzi propendono e il posto dove non vediamo l’ora di tornare, e magari restare per un po’, con chi amiamo o in beata solitudine. Insomma, è sempre stata lì, eppure sembra che soltanto adesso abbiamo realmente scoperto la casa. E ci è voluta una pandemia, un’emergenza mondiale senza precedenti, per scoprire le potenzialità di uno spazio che, ora più che mai, possiamo considerare davvero nostro. Potrebbe sembrare paradossale, perché le tecnologie che oggi reputiamo indispensabili e che ci stanno portando a ridisegnare i nostri spazi privati le avevamo già a disposizione da anni, eppure le avevamo sempre considerate poco più che accessori, quando addirittura non dei giocattoli.

IL CENTRO

Prima di tutto una connessione che fosse stabile e potente, e che potesse funzionare al meglio su tanti dispositivi connessi contemporaneamente. Ma anche un laptop veloce, con uno schermo di dimensioni e definizione sufficienti per poter lavorare molte ore senza affaticare la vista, oppure un bel tablet, da cui navigare sui social network, chattare via Zoom con i parenti o con gli amici e, perché no, da cui guardare la propria serie tv preferita comodamente stesi a letto.

Senza contare la tv, infine, che è ritornata a essere, curiosamente un po’ com’era negli anni ‘50, un vero e proprio centro dell’intrattenimento domestico, l’oggetto attorno al quale passare lunghe serate di svago, o surfando tra le varie piattaforme video in streaming, o immergendosi nelle appassionanti sfide interattive offerte dalle console di nuova generazione. Una tv che, a differenza di quelle con il tubo catodico degli anni ‘50, sono grandi, sottili, ultradefinite grazie allo standard del 4K, e soprattutto “smart”, cioè connesse.

IL LAVORO

Abbiamo riscoperto la casa, e nel farlo abbiamo capito che in quelle stesse stanze potevamo trovare l’ufficio, la scuola, il cinema, i negozi, gli amici. Partiamo proprio dal lavoro, il cosiddetto “home working” che nei mesi che verranno dovremo riuscire a trasformare in “smart working”. Come spiega Alessandra Todde, sottosegretario al ministero dello Sviluppo economico: «Una circostanza drammatica come la pandemia che stiamo vivendo può essere un’opportunità in tal senso. In un Paese come il nostro, dove nonostante gli sforzi degli ultimi anni c’è ancora poca cultura del digitale, ora non dobbiamo solo ripensare i mezzi di lavoro, ma soprattutto rinforzare il patto di fiducia tra aziende e dipendenti, che passa da una maggiore responsabilizzazione di questi ultimi. Ma è chiaro: affinché lo smart working possa essere un reale vantaggio, tanto per le aziende quanto per i lavoratori, è necessaria un’adeguata infrastruttura tecnologica, che a casa dev’essere equivalente a quella dell’ufficio». Quindi attenzione, oltre ai dispositivi (che spesso le aziende mettono a disposizione), anche alla postura e al luogo in cui si lavora, che deve essere tranquillo e il più possibile silenzioso. Lo smart working, per usare le parole di Todde, «non è una bacchetta magica con cui aumentare l’efficienza dei lavoratori. Dev’essere un percorso condiviso».

IN CLASSE

Un percorso che per ora è stato per forza di cose però piuttosto precipitoso, così come è stato quello della didattica a distanza (la cosiddetta “dad”), che se da una parte ha confermato quanto i più giovani fossero già pronti alla transizione tecnologica (spesso a differenza dei genitori), dall’altra ha posto l’attenzione anche sul fenomeno del “digital divide” Un fenomeno che riguarda sia la capacità di utilizzo delle nuove tecnologie (il che è un problema generazionale) sia le possibilità di accesso alle stesse: per quanto oggi dotarsi di strumenti hi-tech sia abbastanza alla portata di tutti, in questo caso le differenze economiche si fanno notare, specialmente se si parla di studenti.

I NEGOZI

C’è da dire che la tecnologia, di fondo, resta comunque molto democratica, e a dimostrarlo con forza, durante questa pandemia, è stato l’e-commerce. Un fenomeno che è letteralmente esploso nel nostro Paese: il lockdown ha infatti improvvisamente messo centro, periferia, nord e sud sullo stesso piano. Fare la spesa, comprare un libro, trovare un pezzo di ricambio per la cucina o ordinare una pizza è diventato, a seconda dei punti di vista, facile o difficile per tutti. Chi vive a due fermate di metro dalle vie dello shopping e chi invece se ne sta in un casolare in campagna si sono ritrovati, entrambi, a fare ordini con lo smartphone in mano. Con il risultato che il primo ha capito una comodità in più, il secondo ha scoperto di avere a portata di clic quel tipo di birra che non era mai riuscito a trovare al supermercato. Per fare tutto questo, molti hanno anche imparato a usare gli assistenti vocali, quei divertenti altoparlanti da mettere in soggiorno con cui poter interagire e magari anche poter ascoltare il singolo di Billie Eilish appena uscito tramite Spotify. Quegli stessi altoparlanti che abbiamo invitato a entrare in casa nostra e che ora stanno lì, in perenne ascolto, in attesa di un cenno che permetta all’algoritmo di conoscerci più a fondo e di offrirci servizi sempre più personalizzati. Perché ora che casa è ancora più nostra, restare davvero da soli è anche molto più difficile.

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