Mihajlovic morto a 53 anni. Vukovar, le vittorie, i gol, la leucemia: una vita da guerriero

Sinisa ha lottato in campo e nella vita. Alla fine ha ceduto a una malattia assassina e inesorabile, contro cui ha combattuto per più di tre anni

Mihajlovic morto a 53 anni. Vukovar, le vittorie, i gol, la leucemia: una vita da guerriero
Mihajlovic morto a 53 anni. Vukovar, le vittorie, i gol, la leucemia: una vita da guerriero
di Andrea Sorrentino
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Venerdì 16 Dicembre 2022, 16:14 - Ultimo aggiornamento: 18:53

Non si è mai piegato né spezzato, Sinisa Mihajlovic, di fronte a nessuno. Era il suo bello, la sua unicità, il suo orgoglio. Alla fine ha ceduto solo a una malattia assassina e inesorabile, contro cui ha combattuto per più di tre anni, ribellandosi con furia al destino, sfidandolo, cadendo e rialzandosi dopo due pesanti cicli di cure per la leucemia, chissà se presago della fine, ma indomabile sempre, circondato dalla sua meravigliosa famiglia: la moglie Arianna, i cinque figli, da poco anche una nipotina. Ma non c’è stato niente da fare, contro la bestia che gli aveva avvelenato il sangue. Sinisa Mihajlovic ci ha lasciato, giovanissimo, all’età di 53 anni. Un paio di settimane fa lo si era visto per l’ultima volta, affaticato ma ancora lucido e divertente, alla presentazione del libro di Zdenek Zeman, a Roma

UN COMBATTENTE DA RECORD

E’ stato uno dei più straordinari combattenti visti sui campi della serie A, un uomo-squadra come ne sono esistiti pochi, e al tempo stesso il sinistro più portentoso che si ricordi, era davvero un ciclone il sinistro di Sinisa, quando sorvolava le barriere e si schiantava in rete: è tuttora suo il record di gol su punizione diretta in serie A, ben 28, a pari merito con Andrea Pirlo. Ma sono solo numeri, come i 96 gol segnati in carriera da difensore, mai così grigi e inutili in un momento così. Sinisa non è stato i gol che ha segnato, o che ha evitato di far incassare nella sua lunga carriera da difensore centrale, dopo gli inizi da esterno sinistro. Nè è stato le polemiche, anche dure, anche estreme, in cui è stato coinvolto, o in cui lo coinvolgevano, anche quando in tanti, troppi, negli stadi gli davano dello “zingaro”. Sinisa è stato un uomo che ha sempre caratterizzato le squadre in cui ha giocato, che non erano mai banali o sciatte, visto che avevano lui dentro il cuore. E sono state squadre che hanno lasciato segni: la Stella Rossa di Belgrado, addirittura campione d’Europa nel 1991 con un Mihajlovic appena 22enne, la Lazio di Eriksson che fu la più vincente di sempre nella storia del club, persino l’Inter dove chiuse la carriera, insieme al suo amico Mancini diventato allenatore, che in quei due anni (2004-2006) ricominciò a vincere.

E’ fin troppo noto che la celebre tempra di Mihajlovic, quel suo spirito guerriero che gli ruggiva dentro, scaturiva (anche) dalle vicende vissute in patria.

FIGLIO DELLA GUERRA

Nella sua Vukovar, dove i serbi come lui erano in minoranza rispetto ai croati, si scatenò l’inferno quando scoppiò la guerra civile in Jugoslavia, e Sinisa vide parenti in armi l’uno contro l’altro, improvvisamente, anche nella sua famiglia, e la sua città distrutta. La sua vita, professionale e non solo, cambiò quando arrivò alla Roma, e qui conobbe Arianna, sua moglie. Poi la Samp, quattro anni, l’incontro fatale con Eriksson e Mancini e il sodalizio che continua nei sei anni alla Lazio, memorabili, prima della chiusura all’Inter. Quando si ritirò, con una partita di addio a Novi Sad, invitò tutti i giornalisti al seguito dei nerazzurri: volo, trasferimenti e albergo, tutto offerto da Sinisa, che era un burbero dal cuore enorme, e sapeva stare al mondo. Poi la carriera di allenatore, il Bologna e il Catania all’inizio, poi la Fiorentina, un anno alla guida della Serbia, la Samp, la grande occasione al Milan (solo un anno, e rapporti mai facili con Berlusconi), il Toro, fino agli ultimi tre anni al Bologna. Dove gli arriva addosso un treno lanciato in corsa, la malattia. Lui la annuncia mostrando il petto, come sempre, e la affronta allo stesso modo. Si cura, e mentre si cura continua ad allenare la squadra, torna, la riprende in mano, finisce la stagione, sempre mostrandosi, senza paura, senza vergogna. È stato un esempio per tutti, e Bologna l’ha eletto cittadino onorario. Poi la leucemia si ripresenta, e negli ultimi mesi si era fatto tutto troppo duro. L’esonero doloroso del Bologna, da molti criticato, in realtà parve un atto dovuto, più pietoso che crudele. Se ne va un grande combattente, e un uomo unico. Un giorno, parlando di un suo giocatore che sentiva troppo la fatica psicologica di portare la fascia di capitano del Torino, Sinisa osservò: «È fatica alzarsi alle 4 e andare al lavoro alle 6, farlo tutto il giorno e non arrivare a fine mese. Questa è fatica vera. Essere capitano del Toro è solo un orgoglio e un piacere». Sinisa era questo qui, e un milione di altre cose ancora. Indimenticabili.

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