Manchester capitale del calcio: City e United nelle finali di coppa, Guardiola e Solskjaer diversi ma...uguali

Manchester capitale del calcio europeo: City e United nelle finali di coppa, Guardiola e Solskjaer diversi ma...uguali
​Manchester capitale del calcio europeo: City e United nelle finali di coppa, Guardiola e Solskjaer diversi ma...uguali
di Benedetto Saccà
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Venerdì 7 Maggio 2021, 04:30 - Ultimo aggiornamento: 21:50

ROMA Al tramonto di una stagione calcistica che, nella migliore delle ipotesi, non si potrebbe definire altrimenti che oscena (al limite atroce, via), sul tavolone europeo rimangono poche briciole di grandioso interesse. Che le squadre inglesi dominino le coppe, vabbè, era giunta notizia fin negli arcipelaghi più remoti – ma pure anni fa, volendo essere esatti. Il fatto più curioso, e nondimeno affascinante, però è intrecciato a una città (semi-polare) di 550 mila abitanti spettacolarmente abituati a vivere sereni nel gelo da addestratori di husky della regione fantasiosamente chiamata North West dell’Inghilterra. E cioè. Manchester. Tra i mirabili luoghi d’interesse e monumenti della città, oltre alla Radcliffe Tower e alla Town Hall, si possono ben ammirare il National football museum e soprattutto: l’Old Trafford e l’Etihad Stadium (o ex City of Manchester, per chi non riuscisse a dimenticare i bei vecchi tempi andati; come non capirlo).

L’eventone, del resto, è riassumibile nel nulla di nove paroline. Ovvero. Manchester, nel VentiVentuno, è diventata la capitale del calcio. Nove parole, s’era detto. In effetti. In effetti è sufficiente dare una sbirciatina a finali e classifiche per captare i confini del panorama. Il City di quel fuoriclasse clamoroso di Pep Guardiola, per esempio, è atterrato in finale di Champions League dopo apposita demolizione del Psg (tenerissimi, i ragazzi di Parigi), ha appena requisito la Premier e, tanto per gradire, il 25 aprile ha vessato il Tottenham e alzato al glorioso cielo di Wembley la Coppa di Lega. Non soltanto, ovvio. Ci informa, d’altronde, il mitico OptaPaolo che il City (nell’ordine) è la prima squadra inglese a vincere 11 partite in una singola stagione di Champions ed è anche la nona squadra inglese diversa a raggiungere la finale di Champions. Trionfo? Poco ci manca... 

Invece lo United dello smarrito Ole Gunnar Solskjaer si è meritato la finale di Europa League radendo al suolo (purtroppo) la Roma in semifinale ed è ormai a un soffio dal conquistare il secondo posto in campionato.

Certo, come sa bene ogni espertone ben informato di pallone, il City e lo United giocano in modo mooolto diverso, giacché il City vola dolce e lieve tra i nove cieli del paradiso dantesco disegnato dalle manine di Guardiola, mentre allo United viene facile imbullonare al campo una sana e approssimativamente robusta manovra da veri operai del campo. Tuttavia, si sarà intuìto, gli esiti risultano i medesimi.

Eppure a differenziare le due squadre non è soltanto lo stile del gioco – talora, più che opposto, invero agli antipodi o, volendo, remotamente in contrasto. A differenziare le squadre è la storia (punto per lo United), la tradizione (punto per lo United), la proprietà (punto per il City), il talento degli allenatori (mille punti per il City), l’età media della rosa (26,5 il City, 25,6 lo United), il valore di mercato della rosa (1,03 miliardi – sissìgnore, miliardi – il City, 717,95 milioni lo United), la bravura dei giocatori (punto ancora per il City, gamesetmatch). 

Così, seguendo percorsi esteticamente lontani e francamente inconciliabili, i due Manchester hanno compiuto l’impresona di staccare dai muri del calcio europeo i quadri delle grandi città d’arte (del pallone). Tipo. Londra, Madrid, Barcellona, anche Milano. Epperò, a volerci riflettere, a voler guardar ben bene, un legame tra i celesti e i rossi esiste – deve e non può non esistere. E si tratta, in fondo, della cultura del lavoro. Ecco, sì, è questo: a Guardiola e a Solskjaer di sicuro non difettano la passione e l’impegno (quasi) agonico per il mestiere. E, ancor più lodevole, è riuscito loro di trasmettere il senso di responsabilità alle proprie squadre senza dover rinunciare alla tenuta psicologica personale. Una merce rara, altroché. Non avrebbero saputo di certo, benché mediante salitone da versanti diversi, arrampicarsi in cima all’Europa. Figurarsi. E soprattutto: insieme.

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