Vinicio Marchioni in “Chi ha paura di Virginia Woolf?” nel ruolo che fu di Richard Burton: «Mille sfumature di George»

Vinicio Marchioni in “Chi ha paura i Virginia Woolf?” (FOTO BRUNELLA GIOLIVO / UFFICIO STAMPA)
Vinicio Marchioni in “Chi ha paura i Virginia Woolf?” (FOTO BRUNELLA GIOLIVO / UFFICIO STAMPA)
di Lucilla Niccolini
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Lunedì 9 Gennaio 2023, 05:05

ANCONA - Quella di Antonio Latella è l’ultima versione italiana del dramma di Edward Albee “Chi ha paura di Virginia Woolf?”, che in oltre sessant’anni ha stimolato innumerevoli registi teatrali. Va in scena questa settimana nelle Marche, al teatro Alaleona di Montegiorgio e alle Muse di Ancona. Vinicio Marchioni è stato scelto da Latella nella parte di George, che fu di Richard Burton, accanto a Liz Taylor, nel celebre film dallo stesso titolo.

 
Vinicio Marchioni, come definirebbe il suo personaggio?
«Un uomo dalle mille sfumature, il cui potere si fonda sulla parola: parla moltissimo, con un linguaggio forbito, articolato, che dà il ritmo alla pièce. E gli permette di condurre tutti i giochi, in una serata in cui succede di tutto. E con la parola riesce anche a cambiare la prospettiva della giovane coppia, davanti alla quale lui e sua moglie Martha arrivano alla resa dei conti. I due ragazzi usciranno da quel salotto completamente trasformati, se non distrutti».
Un manipolatore?
«Prima di tutto, George è un fallito. Il suo passato, a differenza di quello di Martha, di cui veniamo a sapere tutto, resta misterioso: vive nel college del suocero, grazie a lui, ma non è riuscito a diventare direttore del Dipartimento di Storia, non mai scritto il suo romanzo, e ha fallito anche come marito. Manipolatore può definirsi solo nel senso che crea continuamente, per sopravvivere, un gioco al massacro, che non lo salva, però, dal sentirsene dire di tutti i colori dalla moglie».
Un dramma sulla coppia, che da quando debuttò, nel 1962, ha indotto parecchi coniugi, nel mondo, a ripensare il loro rapporto.
«Molto di più: fa riflettere anche sul gap generazionale, e sul bilancio che ognuno dovrebbe fare, prima o poi, tra le sue aspettative e quello che è riuscito a fare nella vita. C’è il tema della creazione, non solo in senso biologico, ma anche dell’immaginazione, che serve per mandare avanti una vita, da soli o in coppia. E della la verità: bisogna dirsela, anche se fa male».
Alle Muse, sarà proiettato il docufilm girato durante le prove dello spettacolo.
«Una documentazione, voluta da Latella, molto interessante, perché porta gli spettatori dentro il processo creativo dello spettacolo: cosa rara e preziosa, che fa capire molte cose».
Come definirebbe questa messinscena?
«Frenetica. Ha un ritmo indiavolato, in cui si aprono momenti lirici di riflessione. La scenografia, scarna, evoca un interno borghese, che poi si apre a risvolti surreali, fino a proiettare la spettatore in una specie di incubo. E stupefacente, anche per chi ha già visto il film. Dalle prime battute, fino a un finale portentoso, Antonio ha creato una macchina teatrale a orologeria, tragica, ma in cui, a tratti, si ride a crepapelle. E sono felice di esserne un ingranaggio, accanto a Sonia».
Che compagna di lavoro è Sonia Bergamasco?
«Generosa e intelligente, ironica e colta.

E poi, da straordinaria musicista qual è, diplomata al conservatorio, ha attitudine all’ascolto, e sa lavorare magnificamente in ensemble». 

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