Il testamento letterario di Cerami
una raccolta di poesie il suo ultimo libro

Vincenzo Cerami
Vincenzo Cerami
di Renato Minore
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Mercoledì 17 Luglio 2013, 15:35 - Ultimo aggiornamento: 15:46
Si prendano una fanciulla/ e un piatto di fagioli/ riuscire a legare con coerenza/- e impressione di naturalezza- una cosa all’altra/ viaggiare sul filo della simmetria/ costruire il complesso intrigo di una poesia».



Era uscito da qualche mese il suo ultimo libro «Alla luce del sole» e c’entrava molto con il "complesso intrigo di una poesia". Era proprio un libro di poesie, la forma che Vincenzo Cerami, amico di poeti come Pasolini, Caproni, Bertolucci, usava di tanto in tanto e che in fondo, come una vena carsica, ha attraversato l’intera sua opera affiorando in certi momenti e secondo certe esigenze. Spiegava Cerami: «Se scrivo un romanzo ho un’idea del mondo e cerco di descriverla. Nella poesia posso anche non avere un’idea nel mondo ma nel momento in cui la scrivo mi porta da un’altra parte mi fa deragliare. È indiziaria del mondo non fotocopia, quindi più vera».



«Alla luce del sole» (Mondadori, 150 pagine, 16 euro) che raccoglie i versi scritti da lui fin dagli anni ’80, è una convinta e convincente promenade sul terreno che molto è congeniale alla sua natura di affabulatore di storie. E’ quello del frammento narrativo, anzi della costellazione di frammenti a mosaico, o ghirlanda, sul filo della loro varietà e vitalità, abbondanza e mescolanza che lambisce e amalgama toni, sguardi, punti di vista assai diversi. Si va dall’intimismo di certe clausure liriche (come quelle di «Capodanno 76» con un’aura sospesa a fior di nervi, molto bertolucciana), a certe ariette bene cadenzate e riscritte nella prevedibilità del tema (come «Rondò») all’indignazione dell’ultima sezione con il poeta-palambaro in una dolorosa immersione nella storia ultima del nostro Paese, insieme sociale - pubblica e intima - personale. In mezzo ci sono prove di virtuosistica riscrittura della ”Pioggia del Pineto”, lampi di biografia e di memoria, bilanci e consuntivi, un’amara consapevolezza che s’avvolge su tutto: « La memoria è una casa inabitabile/ con tartarughe morte, orologi rugginosi/ tovaglie di perline stinte, trottole/ di legno marcito, sedie rovesciate, /stemmi caduti dal chiodo, e una panca/ rimane intatta di legno greggio».



La curiosità di Cerami non è solo una depurata ansia di conoscenza. E’ puntilistica, impura e pur sempre intelligente, frivola ma anche sottile, innata e pur sempre artefatta. Sta in mediatico, fluttuante, ascolto di eventi anche minuti (quelli della fenomenologia dell’amore miniaturizzati sul tempo del batticuore) che appartengono alla propria esperienza personale, al sentimento dell’esistenza e al suo perenne timore//stupore («ho bisogno di olezzo di morte / per parlare della vita») e alla sua imprevedibilità («in questo gioco di mercenari// al soldo del fato/ vince l’ignoto verso cui, giocando/ mi muove il mondo»). Una mobilità di registri e anche una levità di passo che può ricordare Petronio, un autore sicuramente molto amato (anche se non citato come altri latini) da Cerami. Quel Petronio definito da Nietzsche «piedi di vento»: di un vento che «guarisce ogni cosa, costringendo ogni cosa a correre». E Cerami corre: spostando continuamente il suo centro il suo racconto alterna gli interlocutori talora ombre e semplici comparse o voci raggelate che, dai fondali dell’antichità, piovono sulla scena attuale con effetti di surrealtà, come il Faillo di Crotone, vincitore dei giochi Pitici dietro cui si nascondono le figure metamorfiche dell’atleta, acrobata, artista. Cerami compone così, con «piedi di vento», una cronaca ricca di annotazioni, di cose e di situazioni, alla ricerca della scintilla dell'occasione su sui si costruisce il «complesso intrigo di una poesia». Che è breve come un sogno e non si riprodurrà mai, assomiglia alla passante di Baudelaire che non rivedremo. Come il ritratto memorabile di un padre o quello del tassista-ombra di se stesso «eterno cliente con le mie vecchie/ scadenze e rate da pagare», nei versi forse più intensi e drammatici di tutta la raccolta.



Quei frammenti che miscelano il tono (ora elegiaco ora cupo, ora tenero, ora violento, ora anche grottesco come nel notevole «Lagavulin», testo per accompagnamento scenico di uno spettacolo come «Italia mia») sono il risultato ultimo, letterariamente levigato, tenacemente ondulatorio, di un'esplosione, di un big - bang i cui filamenti si depositano sulla pagina come indizi. Con effetti di lenta e sicura sedimentazione attraverso la circolarità del disegno: «L’artista ripartisce/ in destra e sinistra/divide per metà il mondo/ come l’equilibrista. / Ne di qua, ne di là, ma ”tra”./Lotta con due forze contrarie/ (ha in mano il bilancino)/ due specchi ad angolo/ un’invisibile verticale al suolo, pure linee di somma zero».



Nel disegno l’effetto finale e conclusivo è proprio quello già detto di «Italia mia», costruito sulle orme della nostra poesia patriottica. L’estro associativo e analogico di Cerami, la miscela di indignazione e di volatile e leggera coscienza filosofica non costruiscono per progressioni, ma annusano e capovolgono, anticipano e rimescolano gli indizi di un grande racconto: quello della mutazione antropologica del nostro Paese negli ultimi decenni, dal dopoguerra fino all’oggi della «rapidità immobile» rievocandone le passioni decadute, le rabbie, gli amori andati in fumo. Come l’illusione ottica, il trompe-l’oeil della lampada Olonzki , quella che scompare quando la luce è spenta.
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