Ginevra canta Mercedes Sosa
Un viaggio nell'Argentina popolare

L’interprete fiorentina Ginevra Di Marco
L’interprete fiorentina Ginevra Di Marco
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Sabato 4 Novembre 2017, 11:53
SAN SEVERINO - Donna Ginevra canta Mercedes Sosa. L’interprete fiorentina Ginevra Di Marco porta stasera alle 21,30 le canzoni della cantautrice argentina sul palco del Teatro Feronia di San Severino Marche in occasione del festival Sibillini Live. Un viaggio attraverso l’Argentina popolare nel canto ribelle di questa straordinaria autrice sudamericana.

Ginevra, la musica può ancora essere “ribelle” come cantava Finardi?
«Sì, certo. La musica parla alle emozioni. È il veicolo di qualsiasi possibilità, come tutta l’arte in genere. Non può cambiare le cose, ma può indurre pensieri e approfondimenti. Attraverso certi autori si può conoscere una realtà più ampia che vi sta intorno».
Nasce da questa necessità l’approccio alla musica di Mercedes Sosa?
«Direi proprio di sì. Ho trovato importante, soprattutto in questo momento storico, far rivivere una figura femminile così densa di significati e coraggiosa».
Com’è nata l’idea di questo spettacolo?
«Tutto è nato quando il festival fiorentino Musica dei Popoli mi ha commissionato un progetto musicale interamente incentrato su Mercedes Sosa. Io avevo già interpretato qualche suo brano. La direzione del festival era rimasta particolarmente colpita ed entusiasta. Così è nato questo progetto che poi si è materializzato nel disco “La rubia e la negra”».
Come è arrivata alla musica popolare?
«E’ stato un percorso lungo sbocciato dopo la fine dei Csi. Ho avvertito il bisogno di volgere lo sguardo altrove, e ho scoperto che mi trovavo assolutamente in linea con la musica popolare. E così negli ultimi quindici anni ho battuto questo terreno perché è intriso di significati importanti, di storie di coraggio. Proprio come la figura di Mercedes».
Molto differente da ciò che la discografia attuale sta sfornando. Non trova?
«Assolutamente. Sto osservando con interesse il fenomeno attuale dei nuovi cantautori italiani, ma trovo che siano, in gran parte, incapaci di gettare uno sguardo ad ampio raggio. Più o meno raccontano tutti storie molto personali, e non c’è lungimiranza in ciò che propongono. Forse l’unico è Brunori Sas, ho apprezzato molto i suoi lavori».
Dalla scrittura all’interpretazione. Come mai questo passaggio?
«Ho smesso di essere autrice da parecchi anni ormai. E questo perché ho trovato una nuova gratificazione nell’interpretare. Ho cantato in varie lingue e ho esplorato territori diversi. E’ sempre stata una curiosità che non sono mai riuscita a sfamare nei tempi della militanza nei CSI. Adesso, invece, riesco a farlo con gioia».
L’indie-rock ha voltato pagina. Com’era ai suoi tempi?
«Beh, era completamente diverso. Venti o venticinque anni fa eravamo davvero indipendenti e fuori dalle gabbie del mainstream. Non c’erano i talent, che sono la tomba della creatività. Ho sempre pensato che il rock sia uno stato d’animo, una necessità derivante da una reale insoddisfazione. Oggi è tutto patinato. Quello che noi chiamavamo “indie” non esiste più».
Qualche rimpianto?
«No, assolutamente. Io ho fatto tutto ciò che sentivo di fare. Siamo stati indipendenti nel pensiero e nel modo di realizzare la nostra musica. Ricordo con grande orgoglio il periodo dei Csi. Eravamo autonomi in tutto e per tutto, e penso che siamo stati un insegnamento per chi è arrivato dopo».
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