Franco Corelli, il tenore di Ancona. L'8 aprile l'anniversario della nascita

Il tenore anconetano Franco Corelli con Mirella Freni
Il tenore anconetano Franco Corelli con Mirella Freni
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Mercoledì 8 Aprile 2020, 01:15
ANCONA - L’avremmo ricordato pubblicamente in città nel modo migliore, Franco Corelli, il nostro più grande tenore, nato ad Ancona l’8 di aprile del 1921, quasi un secolo fa. Le circostanze ce lo impediscono, ma ci sembra comunque doveroso tracciarne un breve ricordo, in occasione del “compleanno”. Di tenori del suo stampo purtroppo si è persa la memoria.
Il ricordo di lui nelle vesti di prim’attore dell’opera resta e resterà indelebile: per la vibrante bellezza delle note sposata alla prestanza, al “fisico del ruolo” dei personaggi, nell’arco di una carriera iniziata nel 1951 (con “Carmen”) e proseguita fino all’ultima recita in “Bohème” nel 1976 a Torre del Lago, nell’ambito del tradizionale festival pucciniano. Nello straordinario cursus honorum di quei venticinque anni rifulgono, tra le tante presenze nei palcoscenici del mondo, quelle alla Scala di Milano (solo tra il ’60 e il ’64 fu protagonista di ben cinque inaugurazioni consecutive di stagione, il 7 di dicembre) e quelle al Metropolitan di New York, per ben sedici successive stagioni.
Sfidano il tempo, scolpiti in un palpitante monumento vocale “aere perennius” ( “più duraturo del bronzo”, per dirla con un poeta antico), i suoi Don José e Calaf, Andrea Chénier, Manrico e Don Alvaro, Radamès, Mario Cavaradossi e Ernani, Poliuto e Raoul de Nangis (degli “Ugonotti”): tutti percorsi dallo stesso fremito espressivo, dall’ineguagliabile generosità del canto, dalla luminosa bellezza dell’acuto lanciato “ad sidera”, verso e oltre le più alte vette del pentagramma; ma “serviti” al pari, nei momenti di raccoglimento lirico più intenso, da una duttilità e intensità di mezze voci, di smorzature ricondotte a incredibili filature terminali frutto di una tecnica sopraffina, conseguita con studio “impietoso” (per la severità della personale, incessante applicazione). Gli abbiamo chiesto una volta, nel corso di un’intervista: perché non si trovano più i Corelli e i Del Monaco, i Bergonzi e i Pavarotti, i Domingo e i Carreras? Ci rispose con una frase di Beniamino Gigli: “Eravamo entrati al conservatorio in più di cento, e ne siamo usciti che ci contavamo sulle dita di una mano”. 
Poi commentò che il canto lirico richiede impegno e sacrificio, che non sempre i giovani hanno, specie se attratti da facili guadagni. Franco Corelli dell’impegno e del sacrificio personali ha fatto una dottrina, per diventare quello che è stato: “il” tenore.
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