Raffaele Curi si racconta: «Amo le Marche ma qui c'è paura ad avere successo»

Raffaele Curi, attore, regista e direttore artistico della Fondazione Alda Fendi
Raffaele Curi, attore, regista e direttore artistico della Fondazione Alda Fendi
di Luca Patrassi
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Domenica 3 Luglio 2022, 07:10

Raffaele Curi, romano di adozione ma con le Marche nel cuore, Potenza Picena in particolare, è un attore, regista, drammaturgo, direttore artistico della fondazione “Alda Fendi”.

Iniziamo dal futuro, cosa c’è in cartellone nella stagione creativa di Raffaele Curi?
«La mia vita è sempre nel futuro, non è rivolta al passato o al presente: ho il brutto vizio di pensare al futuro, le nostalgie me le posso permettere solo di notte. Torno al cinema come attore in una opera prima di Treat Wlilliams (Hair) , un cameo in Dante di Pupi Avati, poi una serie di giravolte mentali che mi portano ogni giorno ad inventare eventi con la Fondazione Alda Fendi».

 
In particolare?
«Di recente è venuta a trovarci la presidentessa della Georgia, con lei si è parlato a lungo, vorrei fare una grande mostra su Paradzanov, raccontarlo non solo come regista, un visionario, uomo colto e spettacolare».


Una lunga stagione di esperimenti alla guida artistica della Fondazione Alda Fendi. C’è un momento che pensa possa simboleggiare il tutto?
«Undici anni di grandi spettacoli tra performance e teatro con una serie di giovani attori e di guest star come Roberto Bolle e Dominique Sanda. Ora c’è la mostra con un’opera di Picasso dataci dalla Fondazione Intesa, la precedente era con un Picasso della Fondazione Ermitage di San Pietroburgo. Quando è scoppiata la guerra, il ministro della Cultura ha chiesto indietro subito tutte le opere, ho scritto una lettera aperta a Putin che ha fatto il giro del mondo, non so se l’avrà letta, di fatto però il Picasso è rimasto fino a fine prestito».


La vita da attore è iniziata con Vittorio De Sica, poi Comencini e Pupi Avati. Bilancio?
«Rapporto molto strano, preferivo comandare che essere comandato, l’attore deve essere duttile, pongo, cera nelle mani di un regista, a me piaceva plasmare più che essere plasmato».


Venti anni di Festival dei Due Mondi accanto a Gian Carlo Menotti, una seconda vita.
«Quello trascorso a Spoleto con Menotti è stato iI periodo più bello della mia vita: è sempre una persona che fa il posto, non gli spettacoli. Menotti sapeva creare un’atmosfera fantastica, il successo di un festival, di un evento è dato da chi sa creare le atmosfere».


Non possono mancare i suoi due anni di Sferisterio, dalla Bohème di Ken Russel con le modelle in pelliccia Fendi al parterre con Laura Antonelli e Susan Sarandon. Un bel ricordo, qualche retrogusto amaro legato alla provincia.
«Lo Sferisterio ha sempre avuto paura del troppo successo, come i marchigiani.

Pesaro è un’altra cosa, ma da Ancona ad Ascoli c’è il timore della consacrazione, del grande successo. Il maceratese ha paura del “troppo”, io ho cercato di migliorare frequentando un ambiente internazionale. Lo Sferisterio ha questo dramma, che non sfrutta il successo come avvenne con Ken Russell. Un altro grande errore è stato mandare via Pierluigi Pizzi grande uomo di spettacolo. Lo Sferisterio rimane meraviglioso ma è sotto le sue possibilità, giudico lo Sferisterio ma giudico me stesso, la paura del grande passo, del successo, della ricchezza, ti rimane dentro».


I nomi che hanno segnato la sua vita?
«Gian Carlo Menotti, Man Ray di cui sono stato assistente per qualche anno, Domenico Modugno con cui ho recitato in teatro, era un poeta, non solo un cantante e Vittorio De Sica».


I luoghi simbolo del suo percorso umano e professionale?
«Le Marche sono state e sono importanti, ritorno sempre nei luoghi che mi hanno visto ragazzino, le campagne attorno a Potenza Picena e a Macerata dove vengo da solo di notte a passeggiare, è il luogo della mia anima. Poi naturalmente Roma che mi ha accolto. È una sfida, non è una città facile. Come in Bel Ami di Maupassant, “Parigi a noi due”, a Roma non conoscevo nessuno, sono veramente un self made man. Roma aiuta gli audaci».


Quando si parla di bellezza italiana, cosa le viene in mente? Un luogo, un quadro, un personaggio?
«Il Museo di Ancona, le opere di Carlo Crivelli, Sebastiano Del Piombo, mia guida spirituale, Urbino, la Galleria nazionale dell’Umbria, Spoleto , Verona, Siena Lucca, Perugia». 


Mai nessuno ha abbinato il suo nome a vicende politiche, ancora meno ad incarichi. Come giudica i mondo politico italiano, in particolare quello che si occupa, o dovrebbe farlo, di cultura?
«Sono un apolide della politica, non ho mai votato, ho una idiosincrasia per la politica, non ho fatto nessuna carriera in Rai o a Mediaset, la mia scelta di lavorare con i privati è questa. La politica è fatta di persone, non di ideali e in questo periodo non siamo molto fortunati, abbiamo politici di poco spessore».

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