Immagini come stati d’animo, il fotoreporter Adriano Gamberini espone alla Fondazione Pescheria fino al 28

La mostra di Gamberini resterà aperta fino al 28 febbraio
La mostra di Gamberini resterà aperta fino al 28 febbraio
di Elisabetta Marsigli
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Lunedì 1 Febbraio 2021, 06:25

PESARO - Prorogata fino al 28 febbraio, l’installazione di urban art sulle vetrate della Fondazione Pescheria di Pesaro: le suggestive immagini de “lo stupore dentro” di Adriano Gamberini, a cura di Paola Gennari, grazie ad un allestimento innovativo che si ispira alle suggestioni della street e della urban art, è fruibile in sicurezza passando per via Cavour e lo sarà per un altro mese, trasformando il limite di accesso ai musei in un’opportunità.

 
Gamberini, è soddisfatto del successo?
«È stata una bellissima idea, con la possibilità di vedere le foto a grandezze incredibili, in una prospettiva notevole. Uno “stupore dentro” che si vede anche da fuori».


È stato definito “fotoreporter dell’umanità”, cosa significa per lei fotografare?
«Le mie foto non sono immagini di mondi diversi, o di gente insolita: le definirei come delle esplorazioni degli stati d’animo. In realtà vado alla ricerca della spiritualità della vita, passando oltre l’estetica dell’immagine. Una ricerca nella profondità delle persone».


Una sorta di intimità nel rapporto tra lei e le persone, ma anche tra lei e i paesaggi che ritrae?
«Anche il paesaggio ha un anima, basta saperla cogliere. I paesaggi devono essere “miei” non voglio fare una copia dell’originale: attraverso il gioco di contrasti, di luci ed ombre, desidero mostrare una mia personalizzazione. È la mia percezione della realtà, quasi una invenzione più che una documentazione e alla fine diventa solo mia».

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Sono stata sola»


L’obiettivo come ricerca profonda, ma anche istintiva dell’attimo fuggente?
«Non faccio work shop, non aspetto la luce migliore. Cammino e “scatto”. Spesso, in viaggio con altre persone, non ho il tempo di soffermarmi: la foto arriva istintiva, immediata, “rubo” quell’immagine. La foto emblema della mostra (la donna con l’ombrellino rosso), l’ho scattata da una jeep. Non costruisco la scena, non giro con un cavalletto, è puro istinto, emozione dell’attimo».


È necessario aver studiato la tecnica?
«Per quello che mi riguarda no, ma non perché sono contrario a studiare gli effetti di una inquadratura piuttosto che un’altra: semplicemente perché, come ho detto, non mi metto a cercare la luce, il momento o passo e ripasso nello stesso luogo per costruire l’immagine».


Quali paesi destano oggi la sua curiosità?
«Non ho mete prefissate, l’importante è partire, sono curioso e la vita mi affascina, ovunque. Non necessariamente devo andare all’estero per fare le mie foto: recentemente sono stato in Molise, per lavoro, e ho scoperto una regione pressoché sconosciuta e particolarmente attrattiva dal punto di vista fotografico. L’Italia è stupenda, solo che qui c’è maggiormente un problema di privacy».


C’è una foto a cui è maggiormente affezionato, che evoca un ricordo particolare?
«Ce ne sono due: una quella scelta da Dario Fo per il catalogo della prima mostra che mi ha curato. Quella foto mi ha sempre commosso: era un contesto di confusione generale, una festa, e colsi lo sguardo di quelle due anime che si guardavano con amore struggente. L’altra è quella con il filo spinato scelta da Amnesty International: nonostante la ragazza stesse dietro il filo spinato, ci siamo guardati con tanta intensità, uno scambio molto profondo. Molto spesso non riesci a comunicare se non con i gesti, ma avverti un sentimento che va oltre ogni parola».

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