​“Elisabetta regina d’Inghilterra” alla Vitrifrigo Arena di Pesaro, è la prima opera seria di Rossini che mette alla prova la sua musa drammatica

Una scena di “Elisabetta regina d’Inghilterra”
Una scena di ​“Elisabetta regina d’Inghilterra”
di Fabio Brisighelli
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Mercoledì 11 Agosto 2021, 13:16 - Ultimo aggiornamento: 13:18

PESARO - “Elisabetta regina d’Inghilterra”, in “prima” questa sera per il pubblico alla Vitrifrigo Arena di Pesaro, è la prima opera seria di Rossini (1815) realizzata nei suoi anni di libertà compositiva a Napoli (fino al 1822), in cui mette alla prova la sua musa drammatica. Nella ricerca di nuovi codici espressivi, che avrà occasione di affinare in crescendo nel significativo periodo artistico, questo primo “ubi consistam” operistico sul versante sperimentale può dirsi risolto solo in parte.

 
Ci sono novità significative, come la sostituzione del recitativo secco con quello accompagnato (a più ampio spettro strumentale), e la ricerca di una comunicazione espressiva nuova che per ora resta nondimeno solo tracciata. C’è, sin dalla sinfonia iniziale (e a seguire in altri passaggi particolari) il ricorso all’autoimprestito, posto che la stessa è tratta dal precedente “Aureliano in Palmira”, e che di lì a poco connoterà di sé il celebre “Barbiere”: è il segno evidente della capacità di astrazione della musica rossiniana, nel senso che un brano strumentale come questo può servire indifferentemente il comico e il serio. Resta l’elemento della differenziazione timbrica tra le voci, ad esempio tra i due tenori “rivali” che interpretano i ruoli di Leicester (voce più ampia e centrale, in foggia di “baritenore”) e di Norfolk ( più acuta e a tratti “contraltina”); o tra le “nemiche” Elisabetta (che si esprime come vibrante mezzosoprano acuto, qual era la mitica Isabella Colbran alla ‘prima’ di Napoli) e la scozzese Matilde (soprano tout court). Nella presente edizione di “Elisabetta” - terzo titolo della stagione in corso -, a cui abbiamo assistito nell’anteprima per la stampa di domenica, le voci protagoniste risolvono con lodevole impegno le articolate cadenze dell’opera rossiniana, con una messa a fuoco maggiore per il versante femminile, ovvero per l’Elisabetta del mezzosoprano Karine Deshayes e per la Matilde di Salome Jicia; mentre dal lato maschile il Leicester del tenore Sergey Romanovsky denota una saldezza timbrica migliore di quella del collega-rivale Norfolk (il tenore Barry Banks). A tutti si affiancano apprezzabilmente l’Enrico “en travesti” del mezzosoprano Marta Pluda e il Guglielmo del tenore Valentino Buzza. Un ensemble vocale in sostanza valido nel suo insieme, senza evidenze da prim’attori di canto. Funzionale al decorso interpretativo sul palcoscenico la resa dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai diretta nell’occasione dal maestro Evelino Pidò, con il Coro del Teatro Ventidio Basso di Ascoli Piceno pronto ad assicurare puntualmente un suo supporto di valore.
Il regista Davide Livermore, atteso alla prova, attualizza in larga misura la vicenda concentrandosi da una parte su di un fisso, oblungo spaccato di dimora regale di volta in volta “sagomato” secondo le necessità della trama; dall’altro fa ricorso ad ampie proiezioni sullo sfondo che costantemente incombono dilatandosi sulla scena, mutando di consistenza e di colore, a contrappuntare sovente in modo sinistro le agitate procelle dell’anima.

Una vera e propria “overdose” di immagini (anche se a volte suggestive) che “diluiscono” la concentrazione drammatica del testo. Da qui le nostre perplessità su questa impostazione registica di fondo.

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