"Perfetti sconosciuti", Paolo Genovese porta sul palcoscenico il fortunato film. Debutto alle Muse di Ancona, poi Ascoli e Fano

Paolo Calabresi e Valeria Solarino in Perfetti sconosciuti di Paolo Genovese(Foto Salvatore Pastore/Ufficio Stampa)
Paolo Calabresi e Valeria Solarino in “Perfetti sconosciuti” di Paolo Genovese(Foto Salvatore Pastore/Ufficio Stampa)
di Lucilla Niccolini
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Mercoledì 1 Marzo 2023, 03:40 - Ultimo aggiornamento: 3 Marzo, 15:43
Ci si conosce da anni, poi ci si scopre “Perfetti sconosciuti”, l’un l’altro. Il titolo del film di Paolo Genovese, di enorme successo, è diventato un mantra, ripetuto ogni volta che, tra amici, vengono alla luce le zone d’ombra. Il gioco di parole è scontato, rievocando le perplessità suscitate da “Perfetti sconosciuti”, un film che segue le regole di un lavoro teatrale: unità aristoteliche di tempo, luogo e azione. Era inevitabile che Genovese portasse la sua storia sul palcoscenico. Lo spettacolo arriva nelle Marche domani, alle Muse di Ancona (ore 20,45), con repliche fino a domenica (ore 16,30). Sarà poi al Ventidio Basso di Ascoli, il 22 e il 23 marzo, per poi approdare al teatro della Fortuna di Fano, dal 24 al 26. Paolo Calabresi interpreta la parte di Rocco, il padrone di casa. È lui, in questa intervista, a dire che era “inevitabile” che, prima o poi, Genovese fosse tentato di farne una riduzione teatrale. «Da tempo avevamo in mente questo progetto, proprio perché “Perfetti sconosciuti” sembra scritto per il teatro. E il regista ha vinto la sfida di lavorare, per una volta, senza rete: senza l’ausilio della macchina da presa, con cui riesce a portare in primo piano le espressioni, gli sguardi degli amici riuniti a cena». Continua, sorridendo: «Un bel cimento, perché il palcoscenico gli impone il cosiddetto “totalone”, la veduta d’insieme, poco usata in cinematografia, giusto all’inizio di una sequenza».  


Il gioco di luci


Come risolvere gli impossibili “primi piani”, con i movimenti dei volti in evidenza sullo schermo, e gli “a parte” che intercorrono tra i personaggi? «Con un sapiente gioco di luci, a cura di Fabrizio Lucci, che intercetta i singoli di volta in volta: Rocco e sua moglie Eva, o Peppe con Lele. E poi trovo che Genovese abbia saputo studiare bene l’ambientazione con l’aiuto dello scenografo Luigi Ferrigno: un luogo caldo, intimo e accogliente, la casa di tutti loro, dove si ritrovano da anni, apparentemente uniti e solidali».

Ma ecco che si scoprono estranei, custodi di segreti inconfessabili reciprocamente. «La grande idea, l’intuizione di Genovese è proprio questa: la constatazione delle infinite possibilità, e dei rischi, dei nuovi media, che hanno aperto le dighe della segretezza, della nostra intimità. Ma il segreto del successo deriva, credo, dal fatto che Genovese non intende trinciare giudizi morali: non ci sono buoni e cattivi, ma esseri umani che inevitabilmente nascondono cadaveri nell’armadio». 

Il personaggio


Solo Rocco non ne ha. «Ma non giudica. Per questo mi sono affezionato al personaggio, così puro nel suo amore per la famiglia, che gli ha dato la saggezza di superare le situazioni. Il suo non voler sapere non significa mettere la testa sotto la sabbia, ma comprendere che tutti facciamo errori. Ognuno, se vuole, può rendersene conto anche da sé». Come ha affrontato il ruolo, Paolo Calabresi? «All’inizio ero perplesso, perché Rocco è un personaggio consapevole, così diverso dagli uomini svagati, spaesati, fantasiosi, che di solito mi affidano. Poi l’ho amato moltissimo. E d’altra parte – sogghigna – da uomo sposato e padre di quattro figli, è stato facile per me calarmi nella parte, con naturalezza. È quello che ci ha chiesto il regista: un’attitudine non calcata, come di solito chiede il palcoscenico, ma una recitazione sottotono». 

Lo spettacolo


Lo spettacolo ha avuto un rodaggio, in anteprima, a Caserta. Poi, a Salerno e a Perugia, ha fatto il sold out. Conclude Calabresi: «Una reazione, da parte del pubblico, diversa da quella davanti al film. Risate a non finire, finché, quando si consuma la tragedia, una botta di stupore, muto. Alla fine, si sentono tutti coinvolti, come se si chiedessero: e io?». 

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