Pamela Villoresi in “Seagull Dreams” di Irina Brook alle Muse di Ancona: «Portiamo in scena la vita»

Pamela Villoresi in “Seagull Dreams” di Irina Brook alle Muse di Ancona: «Portiamo in scena la vita»
Pamela Villoresi in “Seagull Dreams” di Irina Brook alle Muse di Ancona: «Portiamo in scena la vita»
di Lucilla Niccolini
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Domenica 12 Marzo 2023, 07:30 - Ultimo aggiornamento: 13 Marzo, 16:00

ANCONA - Appollaiati sulle bitte del porto, i gabbiani sognano di spiccare il volo e librarsi nel vento. Così come fanno i giovani attori in erba. “Seagull Dreams”, i sogni del gabbiano, è il titolo dello spettacolo che arriva in scena alle Muse di Ancona dal 16 al 19 marzo, interpretato dagli allievi della scuola di teatro del Biondo di Palermo, e da Pamela Villoresi, che ne è direttrice artistica dal 2019. Il riferimento, immediato, è a “Il gabbiano” di Cechov, da cui è partita Irina Brook per scrivere questo dramma.

 
Signora Villoresi, com’è nato “Seagull Dreams”?
«Una sera, a cena, ho proposto a Irina di realizzare un progetto con noi. Entusiasta, mi ha però avvertito che, per una volta, aveva intenzione di “portare in scena la vita”. Poi, è venuto il lockdown, e il suo si è rivelato il progetto perfetto: ha lavorato in teleconferenza con gli allievi del Biondo, e con gli studenti delle scuole superiori di Palermo. In collaborazione con il dipartimento universitario di Psichiatria, ha affrontato con loro il fenomeno “hikikomori”, mai come in quei mesi preoccupante. Ne sapeva qualcosa, lei, perché sua madre, l’attrice Natasha Parry, una volta ritiratasi dalle scene, preferiva chiudersi in casa. Il passo successivo, verso “Il gabbiano”, che la madre aveva spesso interpretato, è stato per Irina una logica conseguenza».


Una sorta di resa dei conti di una figlia d’arte, come avviene nel dramma di Cechov?
«Probabilmente. Vi si ragiona sugli effetti distruttivi che possono avere uno scrittore e un’attrice sulla vita dei giovani, che vorrebbero affacciarsi al mondo dei padri. Era naturale metterlo in scena con i ragazzi che quest’anno si diplomano nella nostra scuola. È evidente che lei si è immedesimata in Kostia, il figlio. E io, attrice e “madre” degli allievi, in Arkàdina».
Così, Irina ha portato in scena la vita.
«Cuciniamo, sul palcoscenico, non per finta, e mangiamo, in una vera cucina, nel gioco di infinite improvvisazioni. Per la prima volta, dopo tanti anni, sono salita alla ribalta senza uno straccio di copione in mano. Le ultime modifiche, Irina le ha fatte dopo la “prima”. Ogni sera, non si apre il sipario, si aprono i camerini».
Come ha affrontato il ruolo di Arkàdina?
«Vi trasfondo molto del mio vissuto. Mi ha aiutato l’avere interpretato tante volte Medea. Come lei, Arkàdina in qualche modo causa il suicidio del figlio. Calarmi in questa parte è stato per me un’avventura esaltante, come non ne vivevo di simili dal tempo in cui recitavo con Strehler. Da quando sono a Palermo, è il primo vero ruolo che interpreto. Un’avventura di sogno: un sogno che si realizza, e che continua. E abbiamo altri progetti».
Che impatto ha la performance dei giovani sul pubblico?
«Sono i ragazzi in platea a entusiasmarsi: alla fine si lasciano andare a urla e ovazioni. Sentono un forte coinvolgimento, assai più degli adulti. E c’è chi, come il direttore del teatro di Rijeka, riconosce che riportare Cechov ai nostri giorni, come ha fatto Irina, significa darne la più autentica interpretazione, quando ormai il drammaturgo russo sembrava relegato al suo tempo».
Il suo gabbiano torna a volare.
«E sono molto felice di portare questo lavoro ad Ancona, rinsaldando i rapporti, sempre proficui, con Marche Teatro».

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