Martone: "Il mio Leopardi
genio in anticipo sui tempi"

Martone: "Il mio Leopardi genio in anticipo sui tempi"
di Titta Fiore
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Venerdì 21 Marzo 2014, 16:47 - Ultimo aggiornamento: 26 Marzo, 18:55
cominciato dieci anni fa, con l’allestimento dello spettacolo L’opera segreta, l’innamoramento di Mario Martone per Leopardi.



Raccontando di tre grandi non napoletani che a Napoli avevano trovato ispirazione: Caravaggio, Anna Maria Ortese e Giacomo Leopardi, appunto. Riletto, ripreso e rielaborato nel 2011, quando il regista ha messo in scena per lo Stabile di Torino, che dirige, «Le Operette morali». E poi studiato ancora, con Ippolita di Majo, sua moglie, indagato nella vita, nelle opere e nei luoghi per farne un film, «Il giovane favoloso», ora al montaggio, interpretato da Elio Germano con Michele Riondino (Antonio Ranieri), Massimo Popolizio (il conte Monaldo), Anna Mouglalis (Fanny) e Isabella Ragonese (la sorella Paolina). L’uscita è prevista per l’autunno, ma in predicato c’è anche il Festival di Cannes. Solo per tre giorni, invece, andranno in scena al teatro Verdi di Salerno, da stasera, le «Operette morali», lo spettacolo bello e premiatissimo che Martone sta portando in tournée con grande successo ovunque. Ma non a Napoli, la sua città, che l’ha ospitato solamente per qualche replica nel 2012 all’Istituto per gli Studi Filosofici di Palazzo Serra di Cassano.



Una sede prestigiosa, Martone, ma sarebbe stato bello vederlo anche in teatro.



«Non dipende da me, Salerno è l’unica tappa al Sud e sono felice di esserci, il resto della tournée è al Nord e sta andando benissimo. A Firenze, qualche giorno fa, pubblico in delirio. E sui muri è comparsa anche una scritta, "Viva Leopardi". Giuro che non siamo stati noi. È impressionante la presa di questo spettacolo sul pubblico».



Eppure parliamo di un classico e di un testo non proprio semplice.



«Leopardi ha una scrittura molto viva, anche se si esprime in un italiano dell’Ottocento. Abbiamo disboscato, io e Ippolita, testi lunghi e complessi, ma di prosa cristallina. Per molti versi è un autore novecentesco, come diceva Garboli è un poeta di un tempo altro piombato come un meteorite all’inizio dell’Ottocento. Parla di cose che ci riguardano direttamente. È come se avesse previsto la caduta anche delle nostre magnifiche sorti e progressive».



Gli elementi più forti di modernità?



«La consapevolezza del fallimento, ma anche la capacità dello slancio. Si mette sempre l’accento sulla malinconia leopardiana, ma sono la forza dell’illusione e la consapevolezza della caducità del vero i tratti distintivi. In questo senso Leopardi parla di oggi».



Le «Operette» che lei mette in scena sono uno scrigno di sorprese.



«Una delle ragioni del successo, credo, sta nel fatto che il testo è per certi versi comico. Un elemento inaspettato, ma Leopardi lo teorizzava, lavorava a scardinare la lingua, riteneva il comico possibilità fondante per un linguaggio moderno. Anche in questo era un anticipatore. Un incompreso».



A chi lo avvicinerebbe?



«Fatte le debite differenze, peraltro chiarissime, ci sono elementi che lo avvicinano a Pasolini. Intellettuali nel senso più alto del termine entrambi, considerati per la statura e al tempo stesso fuori dagli schemi culturali e ideologici del loro tempo. Pasolini parla di disperata vitalità. E Sensibilità/Vitalità è un lemma dello "Zibaldone"».



La modernità, d’accordo, e poi? Quali gli altri elementi di fascinazione?



«Tutto è nato dopo "Noi credevamo", quando dovevo mettere in scena a Torino un testo di un grande italiano per le celebrazioni dell’Unità. Ho scoperto le "Operette". C’è un drammaturgo segreto in Leopardi e ha capacità visionarie».



E dalle «Operette» è passato al film.



«Un’estate, prima di arrivare alla Mostra di Venezia, siamo andati a Recanati. Io avevo l’omega, ovvero l’esperienza napoletana del 2004, là ho trovato l’alfa: Recanati è un mondo che ti parla moltissimo di quella sorta di prigione borgesiana fatta di libri e di muri che era la sua casa, di quella gabbia in cui il giovane Giacomo imparava a conoscere il mondo».



Proprio a Recanati ha sentito la spinta a fare il film.



«All’inizio ho resistito, mi pareva di non poter restare anch’io imprigionato nell’Ottocento, poi ho seguito l’istinto e ho deciso».



E ha scelto il titolo, «Il giovane favoloso».



«Me lo ha suggerito la lettura di Anna Maria Ortese e del suo delizioso "Pellegrinaggio alla tomba di Leopardi": "In un paese di luce, dorme, da cento anni, il giovane favoloso"... una definizione sorprendente, efficace, era quello che noi sentivamo in Leopardi: una dimensione visionaria e aperta, una capacità creativa straordinaria».



Che cosa si vedrà, nel film?



«Posso dire solo, per ora, che non c’è in Leopardi un solo verso che non sia autobiografico, e questo è un dato importante. La vita per lui è tutt’uno con ciò che scrive, la sua esperienza non si trasfigura in un’allegoria, ma è fusa a temperatura altissima nella poesia, in un’alternanza di caldo e freddo emozionante».