Francesco Repice: «Vi faccio vedere il calcio alla radio». Il radiocronista premiato dal Museo per non vedenti

Il radiocronista Rai Francesco Repice premiato dal Museo Omero
Il radiocronista Rai Francesco Repice premiato dal Museo Omero
di Lucilla Niccolini
4 Minuti di Lettura
Martedì 30 Novembre 2021, 10:30

ANCONA - Sa tenere milioni di persone con l’orecchio appiccicato alla radio, ad ascoltare le sue cronache di calcio. E regala, a chi non può vedere, l’ineffabile emozione di seguire una partita con gli “occhi di dentro”.  Venerdì 3 dicembre alle 17, all’Auditorium “O. Tamburi” della Mole Vanvitelliana di Ancona, il Museo Omero organizza una grande giornata di calcio e di riflessione sul racconto sportivo, con alcuni dei massimi protagonisti.

L’ospite principale sarà Francesco Rèpice, radiocronista della Rai per il calcio, che - scrivono gli organizzatori - possiede la rara capacità di far “vedere” il gioco più popolare anche a chi non possiede l’uso della vista.

Per questa sua pregevole capacità verrà premiato dal Museo Omero e dalla Consulta Regionale per la disabilità della Regione Marche con una scultura dal titolo “Radiovisione”, appositamente realizzata da Felice Tagliaferri.

Alla giornata parteciperanno, nel ruolo di intervistatori, altri due giornalisti sportivi, Andrea Carloni, Presidente dell’Unione della Stampa Sportiva Italiana, e Paolo Papili, radiocronista di Radio Tua. 


Francesco Rèpice, un talento naturale o frutto di tanto esercizio?
«Una lunga pratica: conosco bene il mondo del calcio, per averlo giocato e per averlo frequentato da tifoso. Non ho gareggiato moltissimo, sono un calciatore frustrato. Ma ho frequentato tutte le curve d’Italia, a tifare la Roma. Poi, fin da adolescente, cronista per una radio privata, in Calabria, seguivo il Rende.

Quando giocava in casa, mi appostavo sul balcone, affacciato sul campo, di una signora che avevo persuaso a ospitarmi. Per trasmettere in diretta, mi attaccavo alla sua rete telefonica. E mi invitava a pranzo in famiglia, prima del fischio d’inizio. È stata una buona scuola: le partite del Milan si commentano da sole; per quelle di serie C1, più lente e noiose, devi sfoderare grinta, altrimenti l’ascoltatore ti molla».


Ma insomma, radiocronista si nasce o si diventa?
«Si diventa, credo.

Sandro Ciotti diceva che per farlo bene, si deve portare sulle spalle uno zaino pieno di parole, una valigia con più sinonimi possibile. La fluidità di racconto, alla radio, dipende dalla ricchezza del lessico, per trovare la parola nel preciso momento in cui ti serve. Per farlo, leggi di tutto, dai romanzi alla pubblicità, alle scritte sui muri».


Senza un attimo di respiro, anche ora, mentre parla al telefono. (Ride ndr).
«Sono un pescatore di polpi in apnea, il mio vero mestiere. Ho il fiato lungo».


Potendo scegliere, radiocronaca o cronaca televisiva?
«Non ho dubbi: la radio. La tivù lobotomizza lo spettatore, toglie senso critico, lo costringe all’immobilità. La radio ti insegue, ovunque. E poi scegliere se farti inseguire, mentre fai altre cose. La tivù esclude, la radio ti permette di partecipare anche alla vita degli altri».


I suoi modelli?
«Tanti: il grande Ciotti, Provenzali, Cucchi... e soprattutto una donna, Nicoletta Grifoni. Per me, la più grande radiocronista, non solo tra le donne. E poi, Victor Ugo Morales, il commentatore uruguaiano che ha saputo trasmettere emozioni grandissime, come quando ha raccontato la vittoria dell’Argentina sull’Inghilterra, ai quarti di finale del Mondiale ‘86, in Messico. Non solo con le parole, anche con sospiri e versi irriproducibili. Ha gridato le prodezze di Maradona: “da che pianeta sei venuto?” Un alieno, anche lui».


L’esperienza più emozionante?
«È legata a un ricordo triste: in Brasile nel 2013, alla Confederations Cup, dove facevo solo il commento tecnico, seconda voce accanto a Riccardo Cucchi. La notte del 14 giugno, pochi mesi dopo la morte di mia madre, mi annunciarono che mio padre era mancato. Il 14 giugno dell’anno dopo, ai Mondiali, ancora in Brasile, da prima voce commentavo Italia-Inghilterra».


I suoi miti?
«Con mio zio Rocco, morto da partigiano a Cuneo, Maradona: un esempio per i giovani. Sempre con i più deboli, ha preso posizione. E non ha mai nascosto le debolezze: la sua vita insegna ai ragazzi quanto è facile cadere nella dipendenza».


Venerdì riceverà un premio del Museo per non vedenti. Lunga vita alle Paralimpiadi?
«Per me, Olimpiadi a pieno titolo per tutti. Gli atleti paralimpici sono più forti di tutti gli altri».

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