L'immunologa Viola con il suo ultimo libro a Passaggi Festival: «Danziamo nella tempesta»

L’immunologa Antonella Viola
L’immunologa Antonella Viola
di Lucilla Niccolini
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Domenica 20 Giugno 2021, 03:05 - Ultimo aggiornamento: 15:41

FANO - L’immunologia è una delle scienze più complesse, sono gli stessi biologi a riconoscerlo. Eppure, il libro “Danzare nella tempesta” (Feltrinelli) di un’immunologa, la prof Antonella Viola, a una settimana dalla pubblicazione, il maggio scorso, era già in ristampa. Merito dell’immagine che in questi mesi si è conquistata l’autrice, docente all’Università di Padova; ma soprattutto del modo in cui è riuscita a condurre i lettori in un “Viaggio nella fragile perfezione del sistema immunitario”. Tanto più attesa è dunque la presentazione che del suo libro Antonella Viola farà stasera a Fano, alle 21 in piazza XX settembre, con la giornalista Alessandra Longo.

Come ha affrontato, professoressa Viola, il cimento di rendere accessibile al grande pubblico, e interessante, la sua disciplina, tanto da farne un best seller?
«Dopo le prima perplessità, ho utilizzato due settimane di vacanza, l’estate scorsa, per tracciare una bozza, partendo dall’idea che il corpo e i suoi meccanismi possano servire da perfetta metafora della società. Ho cercato di indicare quello che aveva e quello che non aveva funzionato, nel mondo, all’assalto della pandemia».


Una guerra non annunciata né prevista?
«Ecco, cominciamo da qui: si è subito adottata una terminologia bellica – nemico, trincea, coprifuoco – mentre invece si tratta di una cosa naturale. Un fenomeno, nei confronti del quale il sistema immunitario non mette in atto una guerra, ma una coreografia, in cui tutte le cellule si muovo insieme, al fine di conseguire la guarigione. Il corpo è per sua natura abituato ad affrontare crisi, e può insegnarci ad assumere una postura adeguata, meno scomposta, più organizzata e consapevole, per fronteggiarle.

E poi, parlando di evento non previsto, avrei da fare una precisazione».


Prego.
«All’inizio, la cosa che mi ha spaventato di più non è stata la pandemia in sé, ma il fatto che non si capisse la portata del fenomeno, che si sottovalutasse il pericolo. Temevo che quando tutti fossero arrivati a comprenderlo, sarebbe stato un disastro, perché non avevamo un piano pandemico: niente mascherine, nessuna attrezzatura adeguata negli ospedali».


Forse perché da decenni non si verificava più una pandemia?
«Non si è mai preso in considerazione che potesse accadere. Da sempre, gli scienziati hanno la taccia di “Cassandre”: dicevamo nei convegni, e lo ripetevamo ai nostri studenti, che il rischio esisteva, ma non c’è stata nessuna intenzione di divulgare gli allarmi. Le nostre informazioni non superavano una sorta di parete di vetro che ci separava dalla società».


Allora, almeno questo la pandemia ci avrà insegnato: l’importanza della divulgazione scientifica.
«E la necessità di un dialogo tra scienza, società e politica, per affrontare i problemi che verranno. È venuto il momento di spiegare alle persone una cosa all’apparenza incomprensibile».


Proviamo a indovinare: a “danzare nella tempesta”?
«Esatto, a fare come il nostro corpo: ad allenarci all’imperfetto, ad affrontare e gestire l’incertezza, come insegna il metodo scientifico. Deve passare l’idea che viviamo in un equilibrio precario e non ci siamo solo noi sulla Terra; che la natura è complessa e con essa dobbiamo relazionarci, invece di comportarci da padroni. E che il futuro dipende da quanto noi investiamo nel futuro».

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