È stata la mano di Dio di Paolo Sorrentino è Troisi che incontra Gabriel Garcia Marquez

È stata la mano di Dio di Paolo Sorrentino è Troisi che incontra Gabriel Garcia Marquez
È stata la mano di Dio di Paolo Sorrentino è Troisi che incontra Gabriel Garcia Marquez
di Boris Sollazzo
8 Minuti di Lettura
Domenica 28 Novembre 2021, 13:50

Ha riportato le file fuori dal cinema – qualcosa che non vedevamo neanche prima del Covid -, ha acquietato il solitamente furente e bastian contrario popolo dei social riunendolo dietro un consenso unanime, ha restituito a Napoli una bellezza e una profondità che non aveva da tempo, al cinema e fuori. È stata la mano, lo sguardo, la visione di Paolo Sorrentino a fare tutto questo.

Non era facile entrare dentro il proprio dramma, uno dei più infami e ingiusti – essere rimasto orfano, adolescente, di entrambi i genitori, per colpa di una stufa difettosa nella casa di campagna – e ritrovarci un film delicato e sontuoso, sensibile e divertente, commovente e lacerante. Senza disunirsi, mai (questa la capirete solo dopo aver visto il film).

Nell’intervista rilasciata all’interno del libro “Non avremo un altro D10S”, dedicato anch’esso a Maradona, Paolo Sorrentino ha dichiarato che “se è vero che tutta la mia vita da adulto è stata preparatoria a La grande bellezza, tutto ciò che ho vissuto da bambino e da ragazzo è stato propedeutico a È stata la mano di Dio”. Aggiungiamo che però dentro quest’ultimo c’è tutto il cinema di Paolo Sorrentino, dalle sue ispirazioni – l’Amarcord di Fellini, qui citato apertamente con un ruolo nell’opera, la poesia e la dolcezza di Massimo Troisi, un realismo magico da letteratura sudamericana, alla Gabriel Garcìa Marquez – all’evoluzione di uno stile che ha segnato non solo il suo percorso creativo, ma un’epoca del cinema italiano e non solo. L’unicità del suo tratto e della sua penna, la sua capacità di scrivere, per immagini e con parole e dialoghi, ha segnato gli ultimi vent’anni pur non avendo fatto proseliti degni. E meno male, perché avrebbero fatto la fine di quei calciatori piegati sotto soprannomi come il Maradona del Bosforo e dei Carpazi.

Di sicuro la sua cifra estetica ha segnato profondamente un pubblico che con lui ha trovato un autore di altissimo livello capace di essere pop, di intrattenere, di avere una capacità narrativa modernissima, uno che al contempo non ha mai rinunciato a sfide audaci a chi guardava senza temere però neanche di sedurlo con l’ironia, sequenze spettacolari, l’enfasi rocambolesca, monologhi, dialoghi e battute rimasti nella memoria collettiva e spesso divenuti modi di dire. Una capacità questa che forse condivide, nel cinema mondiale, solo con Martin Scorsese (con Toni Servillo che è il suo Bob De Niro). Al di là di incassi e cifre, Paolo Sorrentino occupa uno spazio unico e irripetibile nel nostro immaginario e ne è consapevole, lo dimostrano le sue incursioni autoironiche in fenomeni d’arte e di costume come la serie Boris (con la mitica battuta su Garrone) o lo sketch per i David con i The Jackal. Ecco perché È stata la mano di Dio è prima di ogni altra cosa un passo coraggioso in una carriera che ha affrontato tante enormi sfide, da un esordio ambiziosissimo a un secondo film quasi muto, da Hollywood alla biografia morale e politica di Giulio Andreotti, dall’Oscar a due stagioni di una serie su Papi che non ci dimenticheremo facilmente. È un passo audace e bellissimo, perché testimonia una vitalità creativa fenomenale: a livello di stile il regista prosegue le sperimentazioni più minimaliste viste negli episodi di The Young Pope e The new Pope (il piano narrativo della vita privata del Cardinal Voiello, per dire) abbracciando quella poesia e dolcezza finora affrontate, nelle altre opere, in modo più muscolare e rutilante.

È stata la mano di Dio è un capolavoro anche e forse soprattutto nel senso più letterale del termine. Non è solo l’opera più bella, completa, emozionante, dolente di questo cineasta (e quindi inevitabilmente degli ultimi vent’anni del cinema italiano ed europeo), ma anche un lavoro seminale che porta il percorso del regista “a capo”.

Dimostrando che come già successo per Gabriele Salvatores, probabilmente l’Oscar ha dato ancora più libertà a un autore che ne ha fatto una bandiera: ecco Youth che si diverte a giocare con i propri cliché, la serie televisiva e il primo lungometraggio che potremmo definire autobiografico e minimalista e che dimostra inequivocabilmente come il cinema di Paolo Sorrentino possa essere altro e alternativo rispetto a quanto visto finora. Un cinema diventato quasi archetipo e proverbiale per quanto era caratterizzato da qualità creative e produttive precise che qui vengono ribaltate, pur mantenendo inalterata la sua firma.

È stata la mano di Dio, semplificandone la trama, è l’educazione sentimentale di Fabio Schisa, alter ego del regista, nel mezzo del cammin della sua adolescenza, tra commedia, melodramma e tragedia. È il racconto tenero e spudoratamente onesto di una famiglia meravigliosamente imperfetta, gioiosa e fragile, piena di amore e quindi anche di contraddizioni, inesorabilmente divertente e un po’ folle. La famiglia di Paolo Sorrentino vista sotto la lente del cinema, dei ricordi, di un realismo magico che ci permette di trovare nel cast San Gennaro e il munaciello, la mitica Zia Patrizia (una Luisa Ranieri perfetta, in tutti i sensi, a cui è dedicata la battuta più bella e emblematica del film: “ma tu tra ‘na chiavata co’ zia Patrizia e Maradona a Napoli, che sceglieresti? Maradona a Napoli”), la signora Gentile che sa insultare e citare classici con la stessa naturalezza, uno zio tifoso e politico che aggiunge un’altra medaglia alla carriera di Renato Carpentieri.

Sì perché come sempre accade nei film di Sorrentino il cast è determinante ed è diretto con cura e valorizzandolo al massimo: Filippo Scotti del suo regista in molti momenti ruba la camminata, il tono, lo sguardo, l’attitudine, con una naturalezza speciale, Toni Servillo si prende il ruolo di scombinato capofamiglia e lo affronta con la consueta immensa bravura ma anche con senso di responsabilità e tutela verso l’amico e sodale, Teresa Saponangelo è semplicemente perfetta – se non vince tutti i premi possibili di qui a un anno, è un complotto - nel dipingere una madre, una moglie, una donna sfaccettata, che può passare da uno scherzo telefonico a una lite straziante, da un fischio di saluto dolce e infantile a una confidenza intima al figlio con la naturalezza di chi recita come se fosse un pittore, consegnando ogni colore sulla tela al suo posto. E non è un caso che il suo talento sia definitivamente sbocciato – ma è una delle migliori attrici italiane da anni - con Antonio Capuano (Il buco in testa) e Paolo Sorrentino, maestro e allievo il cui dialogo nel film è un gioiello a parte, struggente e potentissimo.

La forza di È stata la mano di Dio sta nel fatto che dopo centinaia di parole non abbiamo ancora parlato di Diego Armando Maradona, a cui il titolo del film è dedicato (il giovane Fabio/Paolo non andò con i genitori nella casa di campagna per vedere giocare per la prima volta il Napoli di Diego in trasferta), così come la battuta concitata di Carpentieri nella scena del funerale. Il motivo è che El Pibe qui è un Godot che alla fine arriva, è l’attesa che permette a tutti di sentire, comprendere, quella Napoli, quegli anni, quella famiglia a suo modo esemplare e unica. Il regista apre a tutti noi una parte di sé ma non fa autoanalisi, costruisce una storia semplice e potente, un film strutturato e asciutto sul suo dolore, andando oltre. E tu spettatore senti dentro il magone mentre sorridi e mentre piangi gli angoli della bocca si allargano in una risata, e in questo c’è persino un’evoluzione della lezione di Massimo Troisi, che usava la leggerezza per ridimensionare l’amore, per raccontarne l’importanza e la profondità ma dissacrandone l’ingombro emotivo nelle nostre vite. Sorrentino lo amplifica, perché il suo è un film d’amore, sull’amore, in ogni fotogramma: quello desiderato, agognato, irraggiungibile, deluso, quello filiale, materno e paterno, quello adolescenziale, amicale, quello erotico sperato e infine reale. L’amore per una città, per una squadra, per un’identità culturale ed emotiva. E Maradona permea il film pur non essendoci (quasi) mai, perché quello che portò a Napoli fu un’esplosione d’amore oltre che di voglia di rinascere, di ribellarsi al destino, di andare oltre il dolore profondo di una città ferita da terremoto, colera, terrorismo, politici mediocri, camorra e incuria. Esattamente come fa Fabio col cinema, va oltre il dolore e come Maradona e Napoli ne fa il suo motore e ispirazione.

È stata la mano di Dio è una piccola grande epopea familiare incastonata, come la città, nella bellissima fotografia di Daria D’Antonio che restituisce il profumo di un’epoca e al contempo una dimensione di sognante realtà. Paolo Sorrentino trova la sintesi laddove in altri casi è stato strabordante – e amato anche per questo –, l’equilibrio della narrazione, dello stile, della visione è perfetto, senza alcuna sbavatura ma non perdendo un grammo della potenza visiva, del ritmo, dell’ambizione e della forza della sua scrittura. Lo fa nell’opera in cui è impossibile essere equilibrati, lo fa con un inizio da commedia pura, totale, irresistibile, che ha però dentro di sé la malinconia che ci prepara alla svolta inevitabile e che rifiutiamo fino all’ultimo, e poi la tragedia ha la leggerezza del “tuff tuff” che fa il mare quando ci passi su a 200 all’ora, anche quando è più cupa, anche quando si perde negli occhi ancora brillanti e provocatori di una zia Patrizia sepolta viva. Di Troisi ha l’alternanza di dolore e tenerezza, della Napul’ è di Pino Daniele che chiude il film, lo spietato romanticismo, la capacità di rendere grandioso anche ciò che non lo è. Anzi, che non dovrebbe esserlo.

La realtà non è scadente se c’è chi sa raccontarla, aveva torto Federico Fellini. Ma d’altronde caro Paolo nel tuo film non ne azzecca una, Marchino non ha la faccia da cameriere di Anacapri.

È stata la mano di Paolo Sorrentino, per fortuna.

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