Il poeta anconetano Socci a Radio3 con la raccolta “Regie senza films”

Il poeta anconetano Luigi Socci
Il poeta anconetano Luigi Socci
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Lunedì 20 Aprile 2020, 06:20
ANCONA - La voce di Luigi Socci ci farà sorridere e riflettere, dalle onde di Radio 3. Incantatore di serpenti, con i suoi versi sarà il protagonista, da oggi alle 17, del programma Fahrenheit. Il poeta anconetano, direttore artistico del festival “La Punta della Lingua”, sarà intervistato dalla conduttrice Loredana Lipperini. Le poesie della sua ultima raccolta, “Regie senza films” (Ed. Elliot), saranno poi proposte fino al 24 aprile.

Fahrenheit, Socci, è un bel traguardo, per un autore schivo come lei.
«L’aspettavo da anni, perché è un programma bello, che ascolto sempre, mentre viaggio in macchina. Il libro è uscito il 13 febbraio, sarei dovuto andare a Roma ma, per l’emergenza, ho inviato la registrazione di una decina di poesie, che trasmetteranno nel corso della puntata odierna e per tutta la settimana. Poi ancora, nei giorni successivi».

Un titolo ermetico, “Regie senza films”. L’origine?
«Rispecchia la mia consapevolezza che si scrive poesia sapendo di non poter incidere nella realtà, a fronte di una missione maniacale che non puoi eludere. Come un regista, che ha in testa cento film e non ne gira neanche uno. Alla base una sorta di velleitarismo eroico, che ammiro».

In cui lei si identifica?
«Una follia, come quella di chi si cimenta nell’aeromodellismo: non serve a nulla, ma gli si dedicano i migliori attimi della vita».

Com’è nato questo libro?
«Dal lavoro di una decina d’anni: tessere, in ordine più o meno cronologico, che ho messo in fila, e ne è uscito un mosaico».

Qual è il disegno finale?
«Una linea, che unisce composizioni molto diverse: la poesia è una forma inefficace di comunicazione artistica».

Amara constatazione.
«Una confessione di inutilità, che richiama l’invocazione di Palazzeschi: “gli uomini non dimandano/più nulla dai poeti,/e lasciatemi divertire!”. Come dargli torto?».

Palazzeschi è un suo modello?
«Come Giorgio Caproni. E Franco Scataglini, per la capacità di contenere in misure minime di settenari una densità che gli invidio. E per la caparbietà di fare poesia in provincia».

Come lui, fuori dal coro?
«Un irregolare».

Soprattutto nell’uso della lingua, dei calembour, delle “callidae juncturae”.
«Sono ancora convinto che la poesia nasca dai legami tra le parole, che possono produrre illuminazioni, epifanie. E fanno capire verità».

Lei, Socci, altera i modi di dire, scardina i luoghi comuni, li mette a nudo. Sembra non credere nelle parole.
«Non ho fiducia nella lingua, ma ne ho nella poesia. La lingua è spesso truffaldina, può essere strumentalizzata. La poesia crea i cortocircuiti per smascherarla, sabotando le formule banali che spengono il pensiero».

Come nell’ultima sezione della raccolta: “L’amore vince sempre (e non fa prigionieri)”.
«Per il titolo, ho tratto spunto da una frase a effetto pronunciata da Berlusconi, dopo che un tizio gli aveva tirato il modellino del duomo di Milano. È la parodia di un poemetto erotico, in cui l’amore vince, ma perché… bara».
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