Il psicoanalista Becce ad Ancona per Kum! Festival: «Bisogna accettare la fine per tornare a vivere»

Il psicoanalista Becce ad Ancona per Kum! Festival: «Bisogna accettare la fine per tornare a vivere»
Il psicoanalista Becce ad Ancona per Kum! Festival: «Bisogna accettare la fine per tornare a vivere»
di Lucilla Niccolini
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Lunedì 10 Ottobre 2022, 02:45

ANCONA - Tema universale e ineludibile è il fine vita, al centro dell’edizione 2022 di Kum! Festival, che si terrà ad Ancona dal 14 al 16 ottobre. Alle 14 di sabato 15, all’Auditorium della Mole, Aldo Becce, psicoanalista e docente di Psicoanalisi applicata al campo giuridico, presidente di Jonas Italia, terrà la sua lectio dal titolo “Morte, lutto, risurrezione”. 
Professor Becce, cosa intende con “risorgere”?
«Parlo naturalmente di coloro che restano, dopo la scomparsa di una persona cara. Risorgere significa superare il grande trauma della perdita, non rimanere “abbracciati” a chi se n’è andato, ma staccarsene. Si perde una parte di sé, ma bisogna lasciarla andare. Non ci si può voltare indietro: com’è successo alla moglie di Lot, che è divenuta una statua di sale, rischiamo di cristallizzarci nel lutto, non riuscendo più a vedere quello che rimane, che abbiamo accanto. Bisogna “arrivare a un accordo” col morto, “seppellirlo”, perché non diventi un fantasma. Il suo posto non è più tra noi, ma dentro di noi».
Da dove si comincia?
«Subito, dal rito dell’estremo saluto. In Argentina, dove sono nato e ho vissuto l’infanzia, alla morte si viene addomesticati. Nessuno pensa di escludere i piccoli da quello che è considerato un atto sociale, non privato: i funerali durano giorni, tutto il tempo che serve per abituarsi all’idea della perdita. Preservare i bambini da questo saluto, per evitargli il trauma immediato, lo farà riaffiorare nell’adolescenza, e allora saranno guai seri».
Tanto più, in un passaggio storico, che ha registrato, con la pandemia, milioni di morti?
«Non è solo utile, ma necessario. Se n’è andata un’intera generazione, di quelli che hanno fatto la guerra, hanno ricostruito le nazioni: dobbiamo onorarli e ricordarli, poi chiudiamo il capitolo e ripartiamo».
Quindi dobbiamo educarci, ed educare i giovani?
«A una madre, che non voleva dire alla figlia che era morto il gatto, ho dovuto spiegare che, non mettendola di fronte alla perdita, rimuovendo il lutto, l’avrebbe condannata a un’attesa interminabile, ne avrebbe fatto una Penelope».
Insegnare la morte per insegnare a vivere?
«Perfetto: accettare la fine per dar valore alla vita. Se nascondiamo ai giovani la morte, vivranno come se fossero immortali. Ma il tempo a nostra disposizione non è infinito, e abbiamo il dovere di sfruttarlo appieno».
Domenica, alle 15, lei dialogherà con sua moglie, Mariela Castrillejo, sul tema “Quando finisce un amore”. È lo stesso lutto, quello della morte e della fine di un amore?
«C’è una differenza evidente: la morte è il punto finale e non sappiamo nulla del poi, è un’interruzione assoluta. La fine di un amore può esserne la trasformazione. Ma per gli adolescenti è più grave. La perdita del primo amore, per un ragazzo, è la fine dell’infanzia. C’è chi non regge all’urto, e può arrivare a desiderare di metter fine alla sua vita. Il rischio è reale: ogni adolescente viaggia con la morte in tasca».
In che senso?
«Nel senso che non ha gli strumenti per elaborare il lutto.

Però, parlando con tanti giovani, mi sono accorto che sono più abituati di quanto non lo fossimo noi alla loro età, a confidarsi con gli altri. È un antidoto efficace: se non comunichi il tuo dolore, questo crescerà. E invece troppo spesso tendiamo a evitarlo: lo storico Philippe Ariès ha scritto che oggi la morte occupa il tabù che prima occupava la sessualità».

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