Musella in “L’Ammore nun’è ammore” per il festival La Punta della Lingua

Lino Musella
Lino Musella
di Lucilla Niccolini
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Giovedì 6 Agosto 2020, 12:49
ANCONA - Lino Musella ha con Shakespeare un rapporto d’amore intermittente. È stato il perfido Malvolio ne “La dodicesima notte”, messo in scena dieci anni fa per Marche Teatro da Valentina Rosati. Torna a dar voce al Bardo, questa volta interpretandone trenta sonetti, tradotti in napoletano da Dario Jacobelli. “L’Ammore nun’è ammore” sigla, giovedì 6 agosto alle ore 21, alla Corte della Mole, una delle giornate più intense del festival La Punta della Lingua.
Lino Musella, ci racconti la storia di questo spettacolo.
«Dario, scomparso troppo presto, nel 2013, era un poeta metropolitano, paroliere dei gruppi più significativi dell’ultima generazione di musica partenopea. Traduceva questi sonetti per hobby, a tempo perso. Per suo diletto personale. Poi, chiamava l’uno o l’altro dei suoi amici e li leggeva al telefono. Chissà quante volte abbiamo ragionato insieme su come portarli a teatro… ma non trovavo mai il momento giusto per farlo. Quando è morto, ho cominciato a pensarci seriamente. E in pochissimi giorni è venuto fuori questo, che è un omaggio alla sua memoria».
Con l’accompagnamento musicale di Marco Vidino, cordofoni e percussioni. Che musica?
«Molto evocativa, canzoni napoletane rivisitate, ad ampliare l’effetto che hanno questi versi in un dialetto che è naturalmente musicale. Il paradosso, per me, è recitare, per una volta, non un dramma o una commedia di Shakespeare, ma la sua poesia».
Nei sonetti, Shakespeare rivela molto più di sé che nella drammaturgia. È d’accordo?
«E raggiunge vertici dell’anima universale. Per questo, anche in napoletano, questi versi sono comprensibili ovunque. Quando li ho portati a Milano, c’era chi si chiedeva cosa ne avrebbe capito il pubblico meneghino. Invece, trovo che il mio dialetto rende il messaggio del poeta più accessibile che in italiano. E poi, mi sembra un miracolo, per una volta, dar loro una teatralità, che è insita nell’accento della mia città».
Nella messinscena di Ancona cambierà qualcosa?
«Ci sono passaggi che ho dovuto eliminare. Faccio un esempio: per alcuni sonetti, in cui si evoca il potere dello sguardo e della visione, nella versione originale passavo tra il pubblico, bendato, mi lasciavo guidare dagli spettatori. Questo ora, con le norme di distanziamento sociale, non è più possibile. Così mi inventerò qualcosa di diverso. Ho alcune idee, ma prima devo verificarle con la location, devo studiare la Corte da vicino e trovare soluzioni alternative. Sarà una sorpresa. Anche per me».
C’è un filo conduttore, un fil rouge, nella selezione di sonetti fatta da Jacobelli?
«C’è l’amore, ci sono la bellezza e la giovinezza. Non avendo un committente o un editore, Dario procedeva in assoluta libertà nella scelta della poesie da tradurre, tra cui alcune di forte impronta politica. Com’era lui, un acceso sostenitore dell’assurdità del malcostume attuale. Di questi, il più forte ed efficace è il 66».
I momenti più emozionanti?
«L’inizio e la fine, dedicati a Dario. In quei passaggi, mi pare di sentirlo vicino, come in una seduta spiritica».
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