ANCONA - Bellissima serata, venerdì, al Multiplex Giometti di Ancona. Posti esauriti per la proiezione speciale di “Freaks Out”, il regista Gabriele Mainetti in sala. “Freaks Out” - quattro fenomeni da baraccone, dotati di superpoteri, contro i nazisti nella Roma post armistizio - dimostra che in Italia è ancora possibile far cinema in grande stile, posto di averne l’ambizione e il talento.
Applausi scroscianti sui titoli di coda, quindi la parola all’autore, incalzato dalle domande di Massimiliano Giometti e del pubblico. «Durante il lockdown sono stato stalkerato dalle piattaforme, volevano lo dessi a loro il film, tanto, mi dicevano, la sala non si riprenderà. Ho resistito perché solo il grande schermo può contenere e rilanciare tutte le emozioni». Non sembra un film italiano. «Me lo hanno detto anche a proposito di “Lo chiamavano Jeeg Robot”, la cosa all’epoca mi diede un po’ fastidio, anche se capisco cosa si intende. Ci tengo a sottolineare che i personaggi sono italianissimi. Poi, certo, è un kolossal, l’avessero girato in America sarebbe costato 100 milioni di dollari e ci avrebbero lavorato 500 persone, forse 1000. Noi eravamo in 100 e abbiamo speso 13 milioni di euro. È stata una faticaccia, specie per me che l’ho scritto, diretto, prodotto, ho pure composto le musiche. 26 settimane di riprese, per convincere i finanziatori ho mentito spudoratamente, ho detto che ne sarebbero bastate 12, e circa 8 milioni. Non avessi fatto così, non saremmo mai partiti».
Come è nata l’idea? «Ragionando con lo sceneggiatore Nicola Guaglianone, lo stesso di “Jeeg”, la squadra è in gran parte quella di “Jeeg”, un film è una lunga avventura e mi piace viverla con collaboratori che stimo e di cui sono amico. A Nicola sta a cuore il tema della diversità, per De Angelis ha scritto “Indivisibili”. Io volevo girare un film di guerra spielberghiano con i supereroi. Abbiamo messo insieme le due cose ed ecco “Freaks Out”. Una avventura esaltante ma una faticaccia, ribadisco. Nessuno di noi aveva mai lavorato a una produzione così grande, nessuno di noi voleva risolvere le varie scene ricorrendo a formule stereotipate. Per ogni problema cercavamo una soluzione creativa. Diceva Bukowski che per avere una identità più forte bisogna nuotare controcorrente. Abbiamo nuotato controcorrente».
Uno spettatore manifesta ammirazione per il piano-sequenza iniziale. «In effetti è piaciuto a tutti», rivela Mainetti. «Io vado fiero anche della battaglia conclusiva.