ANCONA - Protette da un fondo di legno di castagno, vestite di vimini, fino a poche decine di anni fa, erano oggetti di uso quotidiano nelle cantine dei nostri nonni. Sono le damigiane o bottiglioni. Potevano contenere dai 5 ai 54 litri di vino o anche d’aceto. Dei giganti dimenticati che, oggi, con un pizzico di manualità sono facili da integrare nel mood delle nostre case come soprammobili, vasi, supporti per lampade o lampadari.
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Per trasformarle abbiamo a disposizione varie tecniche. La prima, molto semplice, è quella del découpage. Quindi basta munirsi di carta decorata, pennelli e colla vinilica. Per chi preferisce dipingerle, usare colori acrilici specifici per il vetro che non richiedono la cottura. A seconda dell’effetto che si vuole ottenere, ci sono i colori trasparenti che lasciano passare la luce e i colori opachi. Un modo alternativo e originale è dipingerle dall’interno. Per realizzare questa tecnica, è sufficiente far colare una buona quantità di colore all’interno della damigiana e continuare a girare quest’ultima fino a che non sarà colorata parzialmente o del tutto.
Le damigiane sono oggetti che si prestano molto a decorazioni originali. Ad esempio per dare rilievo agli spazi decorati con la pittura su vetro, definire i contorni con il finto piombo. Si tratta di un prodotto in pasta venduto in tubetto con un beccuccio erogatore disponibile in color argento, piombo, oro. Attenzione, una volta messo il filo in rilievo diventa irremovibile. In caso di sbaglio, pulire subito con un batuffolo di cotone imbevuto di alcool. Usarle “nature” non è da scartare. Con all’interno un filo di luci a led sono fantastiche. Ma anche trasformate in un lampadario. Se si teme un eccesso di “calore”, tagliare il fondo. Vincente ricoprirle di corda o avvolgerle in una rete di macramé.
Comunque, indipendentemente da come le si veste, le damigiane sono oggetti affascinanti. Ambiguo il loro nome. Sarebbe l’evoluzione del francese “Dame-Jeanne” che in italiano significa “Signora Giovanna” e non si riferisce alla forma tonda di una donna ma ad una bottiglia con i manici che un vetraio dedicò a Giovanna d’Angiò I, la regina di Sicilia, che nel 1347 fuggì da Napoli e si rifugiò in Provenza, una delle sue contee. Mentre per i linguisti Giovanni Alessio e il suo maestro Carlo Battisti, la parola deriverebbe dall’arabo “damajān”, un recipiente di creta che proveniva dalla città persiana di Damghan.