Tutti i colori e i sapori delle frittate:
bastano uova buone e tanta fantasia

Tutti i colori e i sapori delle frittate: bastano uova buone e tanta fantasia
di Véronique Angeletti
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Sabato 28 Aprile 2018, 12:46
Sgombriamo il campo dagli equivoci. Ingredienti, preparazione, presentazione, tutto divide l’italiana conviviale frittata dalla francese monoporzione omelette. Oltralpe si usa la frustra per sbattere le uova e incorporare aria. Si cuoce da un lato e in padella per garantire il cuore cremoso e renderla “baveuse”: si presenta nel piatto calda, piegata in due, scrigno a volte anche di altro. Mentre è proprio l’altro che fa della frittata un italianissimo piatto unico. Le uova sono amalgamate anche con la forchetta, incorporati con gli altri cibi, cotti dai due lati in padella o in forno. Calda o fredda si divide tra commensali.



La “guluppa” del minatore
Pratica, nutriente, economica, forse è per quello che la frittata deve essere il primo piatto da asporto della storia e fa parte del quotidiano di alcuni mestieri. Ovvio per il pastore che sposa uova e formaggio, il montanaro a funghi ed erbe spontanee, il contadino alle verdure dell’orto ma lo è meno nel caso del minatore. Eppure, a Cabernardi, frazione di Sassoferrato sede della miniera di zolfo più importante d’Europa negli anni ‘40, la frittata era il pezzo forte della “guluppa”, quel fazzoletto annodato contenitore del frugale, per modo di dire, pasto del lavoratore. Dentro non mancava mai una bottiglia di acetello, l’acqua con aggiunta di aceto, che dissetava e disinfettava; nel “gavettino” la panzanella, pane secco bagnato d’acqua-aceto, con olio, aglio e pomodoro e il panino caldo però per chi stava in superficie e freddo per chi scavava sotto. Nella raffineria di Bellisio Solfare, a Pergola, il panino, farcito di frittata, di “foje” e salsiccia, si chiamava il “cartoccio del minatore”. Avvolto nella carta lo si immergeva negli stampi di zolfo liquido che nei forni diventavano “pani di zolfo” da spedire in tutt’Europa. «Era la prima cosa che facevamo - ricorda Maria dell’Acqua, 95 anni, l’ultima donna minatore - così per il pranzo, si spezzava il pane di zolfo freddo e si recuperava la pagnotta a patto di ricordare dove era nascosto. Altrimeni si rimaneva a bocca asciutta e il pranzo in partenza sul treno merce». Chi scendeva nel fondo invece mangiava la “fila”. Era il pane del paese, che dagli inizi degli anni ‘60 fa parte della tradizione ferrarese. I fornai ereditarono la ricetta dai marchigiani quando la Montecatini chiuse il polo minerario e spostò in massa minatori e famiglie da Cabernardi a Pontelagoscuro, città creata dal nulla per loro. Una frittata cotta d’estate con le erbe di campo e, d’inverno, con verdure, patate, salsiccia o guanciale sostituiva la mollica. Ma chi veniva dalle miniere del Montefeltro, da quella di Novafeltria o da quella di Urbino, aggiungeva alla frittata, dopo cottura, un’abbondante grattugiata di tartufo bianco e nero di cui il comprensorio tra Arcevia, Pergola e Sassoferrato è particolarmente ricco. Tubero dal sapore troppo forte, disprezzato dai contadini che lo davano in pasto ai maiali.



La “guluppa” nei ristoranti
Oggi, la miniera ha una nuova vita È un parco storico, un sito monumento di archeologia industriale, un polo turistico affidato dal Comune in gestione all’associazione “La Miniera” onlus, (info su www.minieradicabernardi.it). Associazione che con lo chef Leonardo Marchionni punta anche sull’enogastronomia e fa ricerche sulla “guluppa”. «La vera ricetta è semplice - spiega il giovane diplomato al Panzini di Senigallia - sciogliere un po’ di lardo, aggiungere della cipolla tagliata fine, imbiondirla fino a farla diventare morbida, aggiungere della ricotta, poi le uova sbattute con sale e pepe». Anche se è nelle sue varianti proposte dalla ristorazione della zona che la frittata dà il suo massimo. Nell’agriturismo pergolese con centro benessere “il Casale” al 46 di via Sterleto (0721734879) l’agrichef e proprietaria Doriana Barattini Pascucci sfrutta il bosco della tenuta per vestire le sue frittate delle prelibatezze di stagione delegando alla semplicità l’esaltazione dei sapori e profumi veri. «Asparagi selvatici in primavera - spiega - e abbondante tartufo bianco a scaglie da ottobre a dicembre». Cento metri più avanti, lato Sassoferrato, l’agriturismo “Il Gorghetto” via Molino di Castagna (0732976020) gestito da Mirko Cappellini, propone la crescia e la ghiotta frittata con patate e salsiccia. Però quella lavorata fresca dal fratello Enrico Cappellini nella sua macelleria a Cabernardi, tappa di rifornimento per una folla di villeggianti orgogliosi dalle loro radici marchigiane. Poco distante, in località Felcine, “la Vecchia Stalla”, (0732975165) ha al menu un panino farcito con la frittata contadina. La cuoca Maria Laura Urbinelli sbatte le uova, aggiunge carote e zucchine grattugiate, pomodorini a pezzetti, cipolle e patate a dadini cotti in padella con olio, ricotta e parmigiano e mette il tutto al forno a 200 gradi per una decina di minuti. Infine, a Monterosso, nel ristorante “Le Due Sorelle” (0732974021) Romina Tobia cavalca la stagione per regalare al palato dei suoi ospiti una sfiziosa frittata di vitalbe con pancetta croccante.


 
La frittata del pescatore
Sulle spiagge pesarese, su quel bagno-asciuga dove s’infrangono le onde, è lì che cucinavano la frittata i pescatori dell’antica “tratta”. La pesca con rete a strascico calata ad arco in mare e tirata a riva, con le fune, a braccia, da due squadre. «Era il piatto con cui “gli uomini nudi» mangiavano quel delizioso pescato piccolo impossibile da friggere se non in polpette - commenta Flavio Cerioni, della Confraternità del brodetto di Fano - Il bianchetto, novellame di alice o il rossetto, quello di sarde oggi vietati dalle legge europee». A “La Lanterna” il suo ristorante a Fano, al 78 della statale Adriatica sud (0721884748) il mare e la frittata comunque ci sono. Lo chef Elide Pastrani propone una frittata di vongole da gourmet. Infine, se la frittata è sinonimo di pasticcio, forse è perché riuscire questo piatto è un arte. Intanto, prima di mettere l’olio, la padella deve essere calda, il suo diametro di 24 cm per 8 uova e fare delle incisioni sulla superficie aiuta la cottura. Per girarla è questione di pratica; l’alternativa, infornarla.
 

 
La frittatina della mamma firmata Barbara Settembri
Cucina con il passaporto nel taschino, Barbara Settembri, Eurotoque, chef nella Federazione italiana dei cuochi di Macerata e ambasciatrice delle Marche in Brasile. Formata all’Alberghiero di Loreto, allieva del maestro Gualtiero Marchesi, ha una cucina sensibile alle tradizioni che osa innovare con i prodotti tipici. Il suo locale “La locanda dei Matteri” al 5225 della strada Fratte a Sant’Elpidio a Mare (3207807566) ha ottenuto il prestigioso riconoscimento 2018 “Ristorante dell’anno” di Bibenda della Fondazione Italiana Sommelier. La guida di riferimento per il mondo del vino e della ristorazione che raccoglie i migliori produttori di grappa, olio extravergine di oliva e birra. Dal suo personale scrigno di ricordi, per il capitolo bambini nel suo intelligente menu propone la frittatina della mamma «fatta con 2 uova sbattute, sale, pepe, parmigiano e noce moscata; adagiarla su una fetta non troppo spessa di prosciutto cotto mettendo al centro 50 gr di mozzarella; arrotolare, fermare con uno stuzzicadenti e passare il tutto nell’uovo e nel pangrattato e cuocere in padella».



Ogni giorno 10mila uova: è così il miracolo di Alba
Alba Alessandri, 27 anni, proprietaria dell’azienda agricola Villanova, ogni mattina, potrebbe fare una frittata da record. Tutti i giorni consegna 10mila uova fresche bio a Ovito di Terni. Da cinque anni, a Pieve Torina, ha investito nel settore delle galline ovaiole. Quelle rosse, da cortile, la razza “hy-line” particolarmente feconda. «Vivono tra strutture riparate, prati ombreggiati da cespugli ed alberi - spiega - circa 2 ettari e mezzo. Seguono una dieta di mais, girasole, pisello, soia, orzo e farro. È importante fornire un uovo che oltre a garantire sicurezza per la qualità dell’alimentazione ha un ciclo rispettoso dell’animale che lo produce». Svela un trucco: «L’uovo bio lo si riconosce dal tuorlo dal colore meno giallo».
 
 
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