Il personaggio: Nicoletta Frapiccini
«Il mio Infinito era nell’archeologia»

Nicoletta Frapiccinini
Nicoletta Frapiccinini
di Lucilla Niccolini
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Lunedì 19 Giugno 2017, 10:41
ANCOBNA - Tenacia, acume e competenza. E tanta passione. Utili in ogni mestiere, ma fondamentali per l’archeologo. Una specie di vocazione, quella di Nicoletta Frapiccini, direttrice del Museo Archeologico Nazionale delle Marche e dei Musei Archeologici statali di Ascoli Piceno, Arcevia, Cingoli, Numana e Urbisaglia, che nasce quando, a diciott’anni, nella sua Recanati, un giovane conferenziere dell’annuale convegno leopardiano le parla del corso di Archeologia di Firenze. Una città che lei l’amava già da quando, a sette anni, in gita con la classe a incontrare bambini corrispondenti di penna, la visita al capoluogo toscano l’aveva entusiasmata. «Era il ‘67, e la città era piena di studenti più che di turisti, vivace, cosmopolita, bellissima. E quando, dopo la maturità dovetti scegliere, decisi per quel corso eccellente di Firenze. Con molte esitazioni, perché sapevo che mio padre, imprenditore edile, sarebbe stato felice che mi iscrivessi ad Architettura».

Troppe responsabilità
Nicoletta sorride, dicendo: «Sono la prima dei quattro figli. Ahimè, ho la sindrome della primogenita!». Sindrome che? Troppe aspettative? «Più responsabilità degli altri, in quanto più grande. Anche adesso, mi sento responsabile sempre di tutto, anche nel lavoro». Però, papà Mario lascia che Nicoletta scelga la strada che l’appassiona. «Mi ha sempre sostenuto, sapeva quanto sia importante fare un lavoro che ti piace e risponde alle tue curiosità. Da lui ho imparato la serietà sul lavoro, il senso del dovere, la puntualità, l’impegno che ci metti, se sei innamorato del tuo lavoro, come lo era lui». Un uomo “open minded”. «Fino a 18 anni ho ricevuto un’educazione molto rigida, poi mio padre mi ha dato fiducia: viveva in provincia sì, ma aveva viaggiato molto, lavorato anche fuori dall’Italia. Diceva che la sua casa era il cielo: gli piaceva conoscere le persone, le situazioni, il mondo. Uno spirito nomade e curioso, ma molto legato alle radici, alla terra e alla famiglia».

E quando, alla fine del primo anno di Lettere Classiche, indirizzo in Archeologia, Nicoletta arriva in vacanza come ogni estate a Porto Recanati, papà Mario si arrabbia: «Ma cosa fai tu qui? Vai in Grecia, prendi un’auto e te la giri tutta! Se fai una cosa, devi farla bene, andare nei posti...». «Mia madre si spiritò e riuscì a ridimensionare l’avventura: mi fece partire assieme a mia sorella Rossella con un viaggio organizzato alla scoperta della Grecia antica».

La meraviglia che si aspettava
Firenze, fin da subito, era stata quella meraviglia che Nicoletta s’aspettava. «Docenti tra i migliori in Italia nelle loro discipline: li ho adorati e li penso sempre. Per l’archeologia, Luigi Beschi, con cui mi sono laureata, ed Enrico Paribeni. Per filologia, Antonio La Penna e Adelmo Barigazzi, poi l’egittologo Sergio Bosticco, l’etruscologo Giovannangelo Camporeale, per la filosofia antica Francesco Adorno e per la storia greca Giovanni Ferrara, una mente raffinatissima. Insomma, un parterre stellare».

Le si accendono le stelline negli occhi, mentre col ricordo passa in rassegna i suoi maestri. «Mi si sono schiusi tanti mondi». Alla giovane recanatese cresce la passione e la sua tesi è una nuova ipotesi interpretativa di un tempietto ateniese. Ne trae un articolo, pubblicato su una rivista prestigiosa, La Parola del Passato. «Anni dopo, un docente di Atene, durante un sopralluogo nell’agorà, lo citava ammirato, senza sapere che l’autrice ce l’aveva proprio lì davanti».

La laurea in Lettere Classiche
Dopo la laurea in Lettere Classiche, torna a Recanati. «Ogni tanto, nella mia strada sono stata jellata: avevano chiuso a Firenze la Scuola di specializzazione in Archeologia. Ma Recanati non mi andava stretta. «Per me - continua - è una città doppia: la più bella del mondo, dove ogni angolo è un pezzettino di poesia, filtrata com’è dagli occhi di Leopardi. Magica: ti apre tutti gli orizzonti dell’infinito, ti resta nel sangue. Ma anche “natio borgo selvaggio”, come l’ha descritta qualcuno molto meglio di me».

L’ora della specializzazione
Nicoletta si iscrive alla specializzazione in Archeologia Classica a Lecce, e intanto vince il concorso per entrare al Consorzio Cerere, a Senigallia. «Grazie alla legge Spadolini per l’occupazione dei giovani. Eravamo un bel team di diverse competenze, per la catalogazione dei Beni Culturali nelle valli del Misa e del Nevola, su progetto di Amelia Mariotti. Cominciavano allora gli scavi di Castelleone di Suasa, con l’Università di Bologna». Si specializza intanto a Lecce, nell’88, con Francesco D’Andria, nell’89 si sposa e nasce Filippo. Quando il Consorzio chiude, comincia a fare qualche supplenza. «La prima il 17 ottobre del ‘90, ricordo bene la data memorabile, al Classico di Jesi. Fu la mia amica del cuore Paola Ciarlantini a costringermi a prendere l’abilitazione: la scuola – mi disse - può essere un buon modo per cominciare a mettere in gioco le nostre competenze. E alla scuola devo moltissimo: ho imparato a coinvolgere i ragazzi nella cose che sapevo, a divulgare cose complesse, farle diventare accessibili. I giovani ti mettono sempre alle corde, sempre in discussione».

Alla scuola ha dedicato anche un manuale di storia dell’arte, pubblicato con la Hoepli: «I sei anni più terrificanti della mia vita. Dal 2002 al 2008 a casa hanno dovuto sopportarmi. Nel 2001 ero entrata di ruolo e mi dividevo tra scuola, correzione di compiti e compilazione del testo». Sul viso, si disegna un’espressione timida di scuse. E Filippo? «Ha imparato presto, a 4 o 5 anni, a visitare le mostre. Poi, da adolescente, le ha rifiutate, ma quando dopo la maturità è andato con Interrail in giro per l’Europa, dovunque arrivasse mi chiamava per chiedermi quali musei visitare. I compagni di viaggio, al ritorno, volevano uccidermi!».

E la Soprintendenza?
«Alla Soprintendenza archeologica delle Marche, con la quale aveva continuato a collaborare dopo la chiusura del Consorzio Cerere, torna stabilmente nel 2003, con un progetto - Itinera - per i servizi educativi, che tenne impegnati cento insegnanti per tre anni. «La prima avvisaglia della tendenza ad accendere i riflettori sui beni culturali, alla divulgazione, col coinvolgimento delle scuole. La mia capa amatissima era Mara Silvestrini, accanto a Giuliano de Marinis, che avevo già conosciuto nell’84 a Firenze: un soprintendente archeologo che è stato fondamentale per le Marche. E per me». Dalla loro gestione illuminata dei beni archeologici marchigiani impara l’importanza del territorio, della collaborazione con gli enti locali, che oggi, grazie a loro, sembra scontata. «E ho imparato ad assumermi la responsabilità di una divulgazione del passato che non trascuri la qualità della ricerca». Madre e archeologa. Si può? «A sentir Filippo, sì: dice che gli sto ancora troppo sopra!».
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