Il coraggio di Leda: "Mi feci
prendere per salvare gli altri"

Leda Antinori, la staffetta fanese dei partigiani
Leda Antinori, la staffetta fanese dei partigiani
di Andrea Amaduzzi
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Domenica 9 Luglio 2017, 16:49
Si fa presto a diventare grandi. Quando è la vita a deciderlo al posto tuo, non c’è verso di tirarsi indietro e nemmeno si può perdere tempo. Diventare martiri è, invece, altra faccenda. Quella è una specie di vocazione, non può essere insegnata, semmai si possono trasmettere i valori che ispirano il sacrificio estremo. Un ideale forte, però, non basta. Ci vuole anche coraggio e, come risaputo, chi non ce l’ha non è che possa darselo. Leda Antinori aveva tutto quello che serve. Senza un grande cuore e anche un grande fegato, non avrebbe consegnato la sua storia a quella della sua città, che tra il ’43 e il ’45 si sono praticamente fuse. 

Diciotto mesi di fuoco
Tutto si è compiuto in appena diciotto mesi e appena dopo che la bella ragazza nata e cresciuta in via Fanella era arrivata ai diciotto anni. Ne ha, appunto, solo sedici e mezzo quando aderisce alla Resistenza, poco più di un mese dopo l’8 settembre. Abbastanza tempo per attraversare occupazione tedesca e bombardamenti alleati, conoscendo così la guerra da vicinissimo e sperimentandone le conseguenze sui civili. Come per altri della sua età e della sua educazione, viene quasi spontaneo entrare in contatto con ambienti antifascisti. Non così automatico entrare a far parte della Resistenza. Scelta magari inevitabile per chi voleva dribblare l’arruolamento tra i repubblichini, non per lei. 

Da Fano a Furlo
Che si mette a fare la staffetta partigiana, da Fano fino al Furlo, portando messaggi, ordini, qualche volta armi o semplicemente viveri. E con il rischio come inseparabile compagno di viaggio. Leda però ci crede, tant’è che si iscrive anche ai Gruppi di difesa della donna e per l’assistenza ai combattenti per la libertà. E fino a che punto ci creda, verrà fuori nel momento della verità. E’ l’estate del ‘44, esattamente la mattina del 20 luglio. In quel diario abbozzato nei giorni della malattia, che non le permetterà di completarlo, rivela che la sera prima alcuni altri militanti l’avevano raggiunta nella casa di Sant’Andrea in Villis, nelle campagne fanesi, dove era sfollata con la famiglia. Avevano appena recuperato fucili e pistole che il giorno dopo avrebbero dovuto trasportare al comando collocato a valle, nella frazione di Fenile. Lungo il tragitto, però, ecco i tedeschi. Il tentativo di sbarazzarsi del compromettente carico non riesce, gli uomini scappano «e io per non farli prendere mi sono consegnata a loro», ricorderà con toccante semplicità. Qui iniziano i mesi della prigionia, anticamera di una morte precoce. 

Da Carignano a Novilara
Da Carignano, vicino Fenile, viene portata al comando tedesco di stanza a Novilara, frazione di Pesaro. L’indomani il trasferimento a Mondolfo, dove cominciano gli interrogatori. Vissuti tra orgoglio e disperazione, insulti ai carcerieri e pianti inconsolabili. Rifiutando spesso il cibo, nonostante alla sorella, partigiana pure lei, arrestata e poi però rilasciata, avesse raccomandato proprio di mangiare.

Il peggio deve arrivare
Il peggio deve ancora venire e si materializza con la traduzione al carcere di Forlì, dove gli interrogatori si intensificano e le violenze anche. Al padre, che dopo aver saputo dove fosse riesce a raggiungerla, si mostra provatissima ma fiera. Perché ai tedeschi non aveva detto niente. Finisce la detenzione a Forlì, comincia quella a Bologna, dove Leda resta fino al 12 ottobre. È la data del bombardamento che distrugge le Caserme Rosse, in cui era detenuta. La fuga è anche l’inizio del lungo e accidentato cammino di ritorno verso casa. Con tappa a Faenza, ospite di una famiglia di contadini, dove trova l’energia per ricominciare a fare la staffetta. 

Un altro bombardamento
Poi altro bombardamento, altra morte, intorno e un po’ anche dentro, altro arresto, stavolta per mano dei polacchi. Prima dell’ultima parte del viaggio. Comparirà in fondo alla sua via Fanella a meno di una settimana dal Natale del ’45 e a riconoscerla, lì per lì, sarà solo il cane di famiglia. Meno denti, meno capelli, addosso i vestiti di quando era stata presa, sul viso e sul corpo i segni delle privazioni, dei rigori dell’inverno e delle sevizie. Nelle settimane successive prova a rituffarsi nell’attivismo, ma la tubercolosi è più forte dello spirito da combattente. E genererà la meningite che se la porterà via il 3 aprile del ‘45. Due giorni dopo la Pasqua.
 
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