Irene, la traduttrice che visse tre
volte e poi sposò un pesarese

Irene, la traduttrice che visse tre volte e poi sposò un pesarese
di Elisabetta Marsigli
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Lunedì 29 Gennaio 2018, 15:15
È ormai un dato di fatto che nella storiografia dello sterminio nazista, le donne siano rimaste pressoché invisibili anche se in realtà costituirono il 60-70% di coloro che uccise con il gas. L’esperienza femminile è quindi rimasta nascosta, isolata dall’immaginario collettivo. Dalla Polonia e dall’Ucraina la popolazione fu rastrellata come manodopera per l’economia tedesca, come dall’Italia, dopo l’8 settembre 1943, l’esercito rimasto sbandato e senza direttive. Qui si colloca la storia di Irene Kriwcenko, di origine ucraina, che, poco più che adolescente, venne deportata dai nazisti a Magdeburgo nel 1942, dove fu costretta a vari tipi di lavoro forzato. In quei 3 anni di detenzione, fino alla liberazione, conobbe, nel lager della ditta Shäffer und Budenburg, un militare internato italiano, Ivan Gramaccioni, originario del Pesarese e nel settembre 1945 arrivò in Italia in seguito al matrimonio con lui.

Il racconto
Il racconto di Irene è stato pubblicato nel volume «La deportazione femminile. Incontro con Irene Kriwcenko. Da Kharkov a Pesaro una storia in relazione», curato dalle studiose Maria Grazia Battistoni, Rita Giomprini, Anna Paola Moretti e Mirella Moretti (edizioni Consiglio Regionale Marche), in cui, tramite un rigoroso lavoro di ricerca storico-geografica, la testimonianza della Kriwcenko è stata posta in relazione con i tragici avvenimenti dell’epoca e con altre testimonianze di deportazione femminile. Irene si rese subito disponibile al racconto, quando, nel 2008, le studiose scoprirono la sua storia.

Il coraggio
Il coraggio, l’intelligenza e la determinazione di Irene sono davvero straordinari e le permetteranno di sopravvivere, nonostante l’orrore a cui assiste che albergherà per sempre nel suo cuore.

L’occupazione
I disagi della giovanissima Irene iniziano con l’occupazione della sua città, Karkhov. La famiglia di Irene fu salvata da un ufficiale austriaco che, occupata la loro casa, fece in modo di farli sopravvivere. In seguito, iniziarono i rastrellamenti per il lavoro forzato verso tutti coloro che non ne avevano uno. Irene, che aveva studiato tedesco, era riuscita a ricavarsi il ruolo di interprete che le servì come lasciapassare per spostarsi nei vari paesini vicini. Trovò lavoro in Ungheria, ma una sera, durante il viaggio di ritorno in treno, ci fu una retata da parte di militari ucraini collaborazionisti. Irene era tranquilla con il suo documento comprovante il lavoro presso gli occupanti ungheresi del territorio, ma non bastò e furono caricati su un grosso furgone militare. Caricata poi su un treno merci, la fortuna di conoscere il tedesco le valse un minimo di rispetto in più e non fu molestata. Ma Irene, coraggiosamente riesce a scappare, approfittando di una distrazione e cerca di ritornare nella sua città. Passa alcuni giorni ospitata da famiglie altrettanto coraggiose, ma viene catturata di nuovo. Rimessa su un treno, questa volta la destinazione è Magdeburgo, centro dell’industria bellica tedesca.

Lo stalag
Irene viene dirottata in una clinica di famiglie per i combattenti tedeschi, spostata poi in un paesino di nome Zoll. Da lì però decide di fuggire per tornare a Magdeburgo dove erano i suoi documenti. Poi ha un’intuizione: data la difficoltà di sopravvivere “senza essere collocati da qualche parte” si inventa una storia. Si presenta in una stazione di polizia e si dichiara di madre tedesca (cosa di cui si vergogna, ma che le servì per sopravvivere): «Mi hanno creduto e mi hanno chiesto dove volevo andare e cosa volevo fare: ho detto che volevo andare in un campo russo. Dopo varie telefonate mi trovano lavoro in una fonderia della ditta Schäffer e Budenberg e mi mandano al campo russo, lungo il fiume Elba». Nessuno scoprì la verità e, nonostante gli ovvi disagi, Irene riesce a sopravvivere, rimanendo miracolosamente incolume anche ad un bombardamento della fabbrica. Gli ultimi nove mesi di prigionia li passa come infermiera.

Il nome da russo
A farle conoscere il futuro marito fu il nome: «Ero andata nel campo maschile di Lemsdorf a riparare gli zoccoli da un calzolaio italiano; c’è stato un bombardamento e mi hanno fatto posto nel rifugio in cui erano tutti uomini. Un anziano e gentile signore mi dice: - Ho sentito parlare tedesco, di dov’è, cosa fa? Dico che sono russa, che vivo nel campo vicino e lui: - Anche noi abbiamo un russo, si chiama Ivan. E me lo presenta, ma di russo ha solo il nome perché è italiano». Sposerà quell’italiano e vivrà a Pesaro per il resto della sua vita fino alla morte, sei anni fa.
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