Orgoglio di Radia Fontanoni, una vita
vissuta pericolosamente

Orgoglio di Radia Fontanoni, una vita vissuta pericolosamente
di Elisabetta Marsigli
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Domenica 29 Aprile 2018, 16:56
Una donna libera che subì l’emarginazione a causa della morale del tempo solo perché rappresentava un pericolo: quello di essere un modello di comportamento per molte donne dell’epoca. Radia Fontanoni (il nome le fu dato dal padre Lazzaro in omaggio alla radio), è un’altra grande donna con ideali troppo all’avanguardia rispetto alla società del tempo: una donna che ha saputo combattere, spesso anche sola, per la libertà e per l’emancipazione femminile, trascurando sé stessa per il bene comune. Anche questa è una storia, curata da Costantino Di Sante, racchiusa nel prezioso libro “Le vie delle donne marchigiane: non solo toponomastica”.

Tra Urbino e la Francia
Radia nasce a Urbino, nell’aprile del 1923, ma trascorre la sua adolescenza in Francia, dove la famiglia si era trasferita a causa delle minacce ricevute dal padre, fervente antifascista. Nel ’34 i Fontanoni rientrano in Italia, prendendo in gestione il Giardino della Galla, nella frazione Pallino di Urbino. Lazzaro, responsabile di zona del Comitato Politico Intercomunale e vice comandante della Formazione Partigiana Gasparini, sarà catturato, torturato e ucciso il 1 aprile 1944. Radia è, tra i 4 figli di Lazzaro, quella più sensibile agli ideali antifascisti e a soli 20 anni, nel ‘43 diviene staffetta della Brigata Garibaldi. Non ha paura e non si tira mai indietro, nemmeno per pericolose missioni divenendo presto un punto di riferimento molto importante, nonché Sottotenente della Brigata Schieti e comandante del Servizio di Collegamento. 

Una militanza totale
Non solo recapita ordini e messaggi, ma trasporta e nasconde armi, diffonde la stampa clandestina ed è fonte di informazioni per le azioni di sabotaggio. La sua famiglia è controllata dai fascisti e Radia è costretta a svolgere le sue attività in solitudine. Tornerà a Pallino solo nei giorni che precedono la liberazione di Urbino, avvenuta il 28 agosto del 1944. 

La malattia al fegato
Al suo rientro Radia si ammala gravemente al fegato: la sua salute è stata fortemente minata dalle condizioni di indigenza, dalla vita condotta alla macchia, dal dolore per la morte del padre. Ma il suo disagio non finisce qui: Radia porta i pantaloni e fuma, cose che, a quei tempi, dimostravano la sua indipendenza, ma erano malviste persino dai suoi stessi compagni. Malgrado ciò, non smetterà mai di battersi per l’uguaglianza femminile e per quell’emancipazione che mai vedrà pienamente realizzata.
Suo fratello Antonio, il più piccolo dei 4 figli di Lazzaro, ha scritto di recente un libro che racconta la sua famiglia: «Non credevo di trovare così tanto materiale su di loro, ed ora, alla soglia dei miei 82 anni, vorrei lasciare quanto più possibile in onore alla mia famiglia. Radia aveva vissuto la sua adolescenza in Francia e le era davvero impossibile accettare certe condizioni. Aveva superato pericoli e difficoltà in nome dei suoi ideali, non poteva arrendersi». Finita la sua attività partigiana, Radia diventa sostenitrice dell’Udi: «Mi ricordo ancora le discussioni sulla parità dei sessi – prosegue Antonio – ci giocavamo e scherzavamo, ma lei era in grado di farmi sentire meschino in quanto uomo». Un altro dolore per Radia è la separazione dal marito, dovuta alle condizioni economiche: era l’unica in grado di sostenere la famiglia, dalla morte del padre e a loro si era aggiunto un marito disoccupato e dedito al gioco. Con una suocera non favorevole e malgrado la sentenza metta in rilievo i giusti motivi, il suo voluminoso fascicolo nel casellario politico si macchia anche di questa ulteriore “infamia”. Viene definita come «donna impulsiva e violenta e senza scrupoli amante del lusso e della vita mondana (…) Contrae facilmente relazioni con uomini a scopo di lucro». Un’onta che va ad aggiungersi all’arresto del 15 luglio 1950 con l’accusa di aver partecipato all’uccisione di due spie fasciste. 

Le umiliazioni in carcere
Una ulteriore umiliazione la subì in carcere «Mi fecero spogliare e camminare avanti e indietro e mi perquisirono nelle parti intime. Mi presero le impronte digitali, mi fecero rivestire, mi fotografarono e mi riportarono in cella». Venne rilasciata dopo pochi giorni, l’azione venne considerata una legittima «operazione di guerra», ma Radia ne fu fortemente provata. Alla fine del ‘54 torna con il marito e si trasferisce a Pesaro, dove morirà l’anno dopo a causa di una grave malattia. L’ultimo affronto alla sua memoria, nonostante al suo funerale partecipino centinaia di persone, è la negazione ai partigiani che la scortano fino al cimitero, da parte della Questura, di indossare al collo il fazzoletto rosso.
 
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