A 34 anni ha scoperto di essere autistico e ha deciso di condividere la diagnosi con i suoi tanti tifosi: nei giorni scorsi ha fatto il giro del mondo la storia di James McClean, centrocampista del Wigan (serie B inglese) e della nazionale irlandese che in un post su Instagram ha rivelato l’esito dei test a cui si è sottoposto, dopo aver notato delle somiglianze con il comportamento della figlia Willow, 4 anni, anche lei affetta da autismo. «Voglio farle sapere che capisco e che essere autistico non deve mai impedirle di raggiungere i suoi obiettivi e sogni», ha scritto il calciatore alla vigilia della Giornata Mondiale della consapevolezza sull’autismo di domenica 2 aprile. Perché se è vero che i disturbi dello spettro autistico insorgono nei primi anni di vita, può accadere che alcune forme non vengano diagnosticate fino all’età adulta.
Video - Autismo negli adulti: una diagnosi per dare senso alla propria storia
L'autismo in età adulta
«I disturbi dello spettro autistico (Dsa) presentano un’enorme varietà di quadri sintomatologici, - spiega la dottoressa Valeria Fiorenza Perris, psicoterapeuta e Clinical Director del servizio di psicologia online Unobravo. – Proprio per questo può capitare che alcune forme lievi non vengano diagnosticate durante l’infanzia e l’individuo continui a manifestare la propria peculiare modalità di funzionamento per tutto l’arco della sua vita, provando un grande senso di inadeguatezza». Perris segnala che gli adulti affetti da Dsa possono «presentare tic, difficoltà a fronteggiare imprevisti, fobia sociale, fatica a socializzare, oltre a iper- o iposensibilità agli stimoli e depressione».
Autismo in età adulta, il percorso comincia con un colloquio
Cosa dovrebbe fare quindi una persona che riconosce la propria difficoltà nelle interazioni sociali o nello svolgimento di molte azioni quotidiane? «Innanzitutto è importante che la diagnosi sia sempre fatta da professionisti della salute mentale, meglio se in equipe. Il colloquio psicologico deve essere il primo strumento di un percorso strutturato, formato anche dalla raccolta della storia di vita della persona, dall’approfondimento dei vissuti ma soprattutto da precisi test diagnostici eseguiti in contesti specifici affinché la diagnosi abbia validità», sottolinea la dottoressa Perris, che evidenzia l’atto di coraggio necessario per mettersi alla ricerca del senso di ciò che si è vissuto: «Spesso richiedere una diagnosi è difficile, ma implica dei vantaggi come la possibilità di comprendere se stessi e trovare delle strategie più efficaci per la gestione della propria quotidianità. Può essere davvero un balsamo lenitivo per il senso di inadeguatezza esperito fino a quel momento».
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