Sono state «esigenze normative e di risparmio» che hanno spinto l’Agenzia italiana del farmaco a rivedere la nota 96 sui criteri di appropriatezza prescrittiva della supplementazione con vitamina D e suoi analoghi (colecalciferolo, calcifediolo) per la prevenzione e il trattamento degli stati di carenza nell’adulto.
La nuova stretta sulla prescrizione di vitamina D è basata su una logica economica ma non clinicamente valida. Abbiamo a disposizione studi sperimentali che mostrano quanto sia importante per tantissimi apparati, da quello immunitario a quello scheletrico. Varrebbe la pena studiare meglio questo ormone, con studi clinici ampi e complessi, che ne valutino l’impatto sullo stato di salute generale della persona. Capisco il ragionamento economico alla base della nuova determina, ma è miope dal punto di vista clinico. La vitamina D in circolo è un parametro di buona salute, mentre la sua carenza è legata a un elevato livello infiammatorio nell’organismo, con tutte le malattie collegate. È un composto che ha recettori in tutte le cellule, il suo deficit è correlato allo sviluppo di tumori, al peggioramento di obesità e diabete, all’aumento dell’ipertensione. Innanzitutto è difficile valutare il dosaggio della vitamina D in circolo: la glicemia è misurabile in modo più attendibile rispetto a uno steroide di cui possiamo fare solo una stima approssimativa, con grandi variazioni tra un dosaggio e un altro. Quanto ai risultati emersi, mostrano che da sola la vitamina D non previene le fratture, e questo è vero perché la fragilità ossea negli anziani può esser dovuta anche a carenze nutrizionali nel corso di tutta la vita e ad altre patologie. Cosa che lo studio pure ampio, non considera. Quanto alle evidenze che ne escludono l’utilità contro il Covid-19 ricordiamo che la vitamina D potenzia la salute del sistema immunitario.
*Presidente della Società Italiana di Endocrinologia
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Profilo Abbonamenti Interessi e notifiche Utilità Contattaci
Logout