Vaccino, quanto durano gli anticorpi? «I test sierologici con valori bassi sono poco indicativi»

Vaccino, quanto durano gli anticorpi? «I sierologici con valori bassi sono poco indicativi»
Vaccino, quanto durano gli anticorpi? «I sierologici con valori bassi sono poco indicativi»
di Mauro Evangelisti
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Sabato 29 Maggio 2021, 22:50 - Ultimo aggiornamento: 31 Maggio, 09:45

Il valore utilizzato dalla maggioranza dei test sierologici è 80: se l’indicatore U/mL è superiore a quel numero si è positivi agli anticorpi anti Sars-CoV-2 RBD Spike, più semplicemente significa che si è sviluppata la protezione dopo il vaccino. Ma molti esperti avvertono: è poco più di una convenzione. E invitano a diffidare: in realtà la difesa offerta dal vaccino (ma anche dall’avere superato l’infezione) va oltre alla semplice “misurazione degli anticorpi” (e tra l’altro quel valore di riferimento varia da test a test).

«I test sierologici rapidi sostanzialmente sono inutili. La risposta anticorpale riflette solo una parte della protezione offerta dal vaccino» taglia corto il professor Carlo Federico Perno, virologo, è direttore di Microbiologia all’Ospedale Bambino Gesù di Roma. Nella sua struttura è stato realizzato, in collaborazione con vari gruppi, uno studio su 3.500 operatori sanitari vaccinati a inizio 2021 ed è emerso che, dopo poco meno di sei mesi, la quasi totalità è ancora protetta da Sars-CoV-2.

Anche altre ricerche eseguite negli Stati Uniti confermano che la protezione del vaccino, quanto meno (bisognerà attendere altro tempo ovviamente per avere risultati ulteriori) dura tra sei e nove mesi.

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ESERCITO
«Ma non parlate di anticorpi in quanto tali, c’è tutto un esercito che si mobilita per proteggerci quando ci vacciniamo. Gli anticorpi sono solo i soldati al fronte, ma dietro c’è la logistica, che è fatta dalle cellule memoria ma anche di altri soldati come le cellule killer che sono attivate dal vaccino. Noi dobbiamo analizzare tutto il “sistema” messo in piedi dall’organismo. Detto questo dal nostro studio abbiamo notato che anche in coloro che hanno avuto un calo degli anticorpi le cellule della memoria rimangono». In sintesi: calano gli anticorpi, ma non diminuisce la memoria immunitaria che protegge sia dalla malattia sia dell’infezione. E all’Ospedale Bambino Gesù dallo studio è emerso che solo lo 0,7 per cento degli operatori vaccinati si è infettato (e comunque con una malattia molto leggera).

 

Molti italiani vaccinati decidono comunque - malgrado le perplessità degli esperti - di sottoporsi a test sierologici per verificare la presenza degli anticorpi. I laboratori hanno diverse tipologie di test e anche i valori di riferimento variano, ma i più diffusi usano come indicatore il Bau (binding antibody unit) superiore a 80 per dimostrare la presenza degli anticorpi diretti contro la proteina spike. «In realtà - ribadisce il professor Roberto Cauda, direttore di Malattie infettive del Policlinico Gemelli - si tratta di un valore arbitrario, una parte importante dell’immunità garantita dal vaccino deriva dalla memoria cellulare».

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TIMORI
Ma mi devo preoccupare se da un test sierologico, nonostante la vaccinazione, il valore di anticorpi risulta basso? Replica il professor Perno: «In realtà solo se quell’indicatore è uguale a zero possiamo dire di trovarci di fronte a uno dei rarissimi casi di persone che, per ragioni varie, non rispondono al vaccino. Per questo dico che in realtà questi test sono poco utili: se il valore è basso, ma non zero, non significa nulla. Certo, se c’è una risposta anticorpale alta è ragionevole pensare che l’organismo abbia risposto bene alla vaccinazione. Attenzione stiamo parlando di anticorpi S, quelli del vaccino, mentre gli anti N sono quelli dell’infezione. Però nella fascia intermedia tra zero e altissimo, che comprende la stragrande maggioranza delle persone, ci troviamo di fronte a dati da interpretare, per questo dico che i test rapidi non servono a nulla. In sintesi: posso fare il test sierologico con il prelievo venoso per cercare gli anticorpi anti S, ma nella stragrande maggioranza dei casi è difficilmente interpretabile».

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Secondo il professor Cauda «la presenza degli anticorpi è sì importante, ma non è l’unico elemento che garantisce la protezione da Sars-Cov-2». C’è il rischio che presto dovremo vaccinare nuovamente coloro che hanno ricevuto la doppia iniezione all’inizio della campagna, dunque a gennaio, soprattutto operatori sanitari e over 80? «Al momento - replica il professor Cauda - è una ipotesi, ma non ci sono certezze. La risposta immunitaria, per esperienza, al momento è simile per i quattro vaccini che stiamo usando. Allo stesso tempo, ad oggi, il tasso di reinfezione tra chi ha avuto il Covid nella prima parte del 2020 è bassissimo». Questo dimostra che l’immunità cellulare dura molto di più di quanto si pensasse. Il professor Massimo Andreoni, direttore di Malattie Infettive del Policlinico Tor Vergata di Roma, spiega: «Anche a un anno dalla guarigione si conserva una certa copertura immunitaria, per questo penso che per chi ha superato l’infezione sia sufficiente una dose».

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VALUTAZIONI
Al Ministero della Salute stanno valutando con attenzione l’evolversi della situazione e i tecnici dicono: in questo momento non possiamo ancora dire né quanto dura la protezione del vaccino né quando dovremo somministrare la terza dose. Il professor Pierluigi Lopalco, ordinario di Igiene all’Università di Pisa (oggi assessore in Puglia) osserva: «Dobbiamo anche capire qual è l’obiettivo che vogliamo raggiungere. Se è eliminare completamente il virus, allora ha senso una terza dose per tutti, ma io penso che difficilmente potremo liberarci di Sars-CoV-2. Più forte l’ipotesi che diventi endemico, allora sarebbe meglio vaccinare con la terza dose solo i soggetti più fragili, a partire dagli anziani, perché se anche il coronavirus circolerà tra i più giovani non causerà malattie gravi. Ciò che conta ora, però, è vaccinare più persone possibili, di tutta l’età, in modo da fare crollare la trasmissione».

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