Roma, fa autopsia su una donna con l'epatite C: tecnico muore dopo 10 giorni. Si indaga sulla mascherina

Lo specialista indossava una chirurgica. Forse avrebbe dovuto utilizzare una Ffp2 o Ffp3. Una donna era deceduta per epatite C, dopo 10 giorni stessa sorte per il professionista

Roma, tecnico muore dopo l'autopsia. Si indaga sulla mascherina usata
Roma, tecnico muore dopo l'autopsia. Si indaga sulla mascherina usata
di Giuseppe Scarpa
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Martedì 25 Gennaio 2022, 08:18 - Ultimo aggiornamento: 4 Ottobre, 18:46

Che mascherine indossavano? I dispositivi protezione individuale impiegati erano sufficienti a proteggere l'equipe che effettuò un'autopsia su una donna morta per l'epatite c? Il gup chiede alla procura di Roma di fare un approfondimento d'indagine su uno strano decesso che colpì Rufino Vacca, 64 anni, tecnico di Anatomia patologica all'ospedale San Giovanni Addolorata. L'uomo morì dieci giorni dopo l'autopsia, ucciso dallo stesso virus che aveva causato la fine di una donna su cui Vacca, un infermiere e un anatomopatologo stavano eseguendo gli esami medico legali. Adesso il pm dovrà capire se la mascherina impiegata, una normale chirurgica, era sufficiente a proteggere Vacca da un eventuale contagio. Contagio che si rivelò fatale. Forse, una Ffp2 o una Ffp3 l'avrebbe potuto salvare? A questo quesito dovrà fornire una risposta il consulente nominato dalla procura. Ma non è tutto. Sarà necessario verificare anche le linee guida, cosa dicevano in merito all'impiego dei dispositivi di protezione individuali?


LA VICENDA

L'equipe si sentì male, l'undici agosto 2013, durante l'autopsia eseguita su una donna deceduta a causa dell'epatite c, all'ospedale San Giovanni Addolorata.
Infine il tragico epilogo.

Uno dei componenti, il tecnico di Anatomia patologica spirò pochi giorni dopo. Mentre l'anatomopatologo e l'infermiera vennero ricoverati a causa di un forte malessere per poi riprendersi. Entrambi se la cavarono dopo un lungo periodo trascorso allo Spallanzani.

 

LE VERIFICHE

Ciò che ad oggi è certo è che nella sala dove venne eseguita l'autopsia l'aria non era inquinata, nessun elemento patogeno insomma era stato riscontrato. Era questa una prima conclusione a cui arrivarono i Nas dei carabinieri dopo l'esame dei filtri di condizionatori e gli scambiatori d'aria che alimentavano la sala autoptica.
Per il 64enne fu inutile il disperato tentativo di trapianto di fegato al Policlinico Tor Vergata dopo il malessere avvertito mentre con i colleghi effettuava l'autopsia alla donna morta.
Un decesso su cui la stessa regione Lazio all'epoca si mosse per fare chiarezza. Tre giorni dopo il decesso del tecnico la regione convocò d'urgenza le direzioni sanitarie di tutte le aziende del Lazio per fare il punto sul rischio clinico e le infezioni ospedaliere e per verificare il rispetto delle linee guida nelle sale autoptiche. Il 19 agosto, sempre del 2013, poi venne anche convocata la Commissione ispettiva regionale.
A distanza di sette anni e mezzo, da un epilogo tragico su cui diversi sono gli interrogativi, si vuole fare chiarezza. Il decesso di Vacca è considerata un'eccezione. Si contano, infatti, sulle dita di una mano i casi simili. Adesso bisogna capire se l'impiego di dispositivi con una capacità filtrante maggiore sarebbero stati sufficienti per impedire il contagio e quindi salvare la vita a Rufino Vacca.

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