Referendum giustizia, dalla decadenza al Csm: cinque sì per cambiare ma c’è l’incognita del quorum

Referendum giustizia, dalla decadenza al Csm: 5 sì per cambiare. Ma c’è l’incognita del quorum
Referendum giustizia, dalla decadenza al Csm: 5 sì per cambiare. Ma c’è l’incognita del quorum
di Andrea Bulleri
7 Minuti di Lettura
Domenica 12 Giugno 2022, 08:00

Un’occasione storica per cambiare la giustizia, si infiammano i sostenitori del Sì. Modifiche pasticciate, inutili o dannose, ribatte il fronte del No. Da una parte Lega e Radicali, con Forza Italia, Italia Viva e Azione; dall’altra Cinque Stelle e Pd (che ha lasciato libertà di voto), mentre Fratelli d’Italia ha scelto per due no - ai primi due quesiti - e tre sì. In mezzo, 5 schede di colore diverso, 5 domande per cancellare (e quindi modificare) norme che regolano le carriere dei giudici, la custodia cautelare e la decadenza da incarichi pubblici. Alcune già oggetto dalla riforma della Guardasigilli Marta Cartabia in discussione in parlamento. 

Si vota oggi, dalle 7 alle 23, ma per i promotori la consultazione è vittima di «censura» . Matteo Salvini avrebbe voluto che il Capo dello Stato invitasse alla partecipazione: idea accolta con «stupore» dal Quirinale, che rimarca come Sergio Mattarella consideri il voto un diritto, non un dovere. Proprio l’affluenza è la vera incognita della partita. Perché il voto sia valido deve recarsi ai seggi il 50 per cento più uno degli aventi diritto: circa 25 milioni di italiani. Obiettivo arduo, visto che il clima estivo potrebbe indurre molti a preferire le spiagge. L’ultima volta che un referendum abrogativo ha centrato il quorum correva il 2011. I temi? Quattro, dal “legittimo impedimento” al nucleare. Un’eccezione, visto che dal 1990 a oggi il numero dei votanti è stato sufficiente solo 4 volte su 12. I tempi della stagione d’oro dei referendum, dal divorzio all’aborto fino a quelli post-Tangentopoli, rischiano di somigliare sempre più a un ricordo sbiadito. 

 

Decadenza 

I politici condannati restano in carica 

Cancellare oppure no la cosiddetta “legge Severino”, dal nome del ministro della Giustizia del governo Monti che firmò la riforma nel 2012. È quello che chiede il primo quesito referendario (scheda rossa): chi sceglie il Sì, vota per abrogare la norma che impedisce ai politici condannati di occupare incarichi pubblici.

La legge attualmente in vigore infatti prevede l’incandidabilità o la decadenza automatica per parlamentari, membri del governo e consiglieri regionali che abbiano subìto condanne definitive (ossia non più modificabili) ad almeno due anni per reati come corruzione, mafia, terrorismo e delitti contro la pubblica amministrazione, oppure a quattro anni per tutti gli altri reati non colposi. I sostenitori del Sì ritengono che la legge sia troppo dura con i sindaci, per i quali in caso di condanne anche solo in primo grado - e che quindi potrebbero essere ribaltate nei pronunciamenti successivi - è prevista la sospensione immediata dalla carica per 18 mesi. Se vince il No, la legge invece resta com’è. Tra i casi più clamorosi di applicazione della norma, quello che nel 2013 riguardò l’ex premier Silvio Berlusconi, decaduto dalla carica di senatore. 

Custodia cautelare 

Carcere più difficile prima della sentenza 

Il secondo quesito (scheda arancione) chiede di modificare le norme che regolano la custodia cautelare, cioè la possibilità per un giudice di arrestare un sospettato anche prima che cominci il processo. Possibilità che la l’articolo 274 del codice di procedura penale concede (a patto che vi siano a patto che vi siano «gravi indizi di colpevolezza» a suo carico) in tre casi: se esiste il pericolo che l’indagato fugga, se c’è il rischio che inquini le prove oppure che ripeta lo stesso reato. Chi vota Sì chiede di eliminare quest’ultima voce dall’elenco. Il motivo? Secondo i promotori del referendum, nel nostro Paese si fa un uso troppo massiccio della carcerazione preventiva. E limitare la libertà di una persona non condannata significa violare la presunzione di innocenza e il principio del garantismo, a cui dev’essere ispirata l’azione penale. Ribattono i sostenitori del No: con l’abrogazione, non sarà più possibile per un magistrato mandare in carcere o ai domiciliari indagati potenzialmente in grado di delinquere di nuovo, anche in caso di reati come minacce, stalking, spaccio, furti e rapine. Il tema del secondo quesito non è toccato dalla riforma Cartabia.

Giudici e pm 

Corsie separate, basta cambi di toga 

Separare definitivamente le carriere dei magistrati. Da una parte i giudici, chiamati a essere “super partes” nel prendere le loro decisioni, dall’altra i pubblici ministeri, rappresentanti dell’accusa. È l’obiettivo del terzo quesito referendario (scheda gialla), che punta a cancellare quelle norme che oggi rendono possibile per un magistrato passare da una funzione all’altra fino a quattro volte nel corso della propria vita lavorativa. Una stortura, per i sostenitori del Sì, secondo cui ogni giudice dovrebbe decidere a inizio carriera quale delle due toghe intende vestire senza possibilità di cambi di casacca, così da garantire la propria terzietà. Per i fautori del No, invece, separando in modo così netto le carriere i pm potrebbero finire per perdere parte di quell’autonomia essenziale al loro ruolo. Chi vota No sottolinea anche un altro punto: il tema è già oggetto della riforma Cartabia in discussione in parlamento. Riforma che sul punto raggiunge una mediazione: no alle carriere separate tra giudici e pm, passaggio da una funzione all’altra consentito, una sola volta, nell’arco dei primi dieci anni dall’ingresso in ruolo del magistrato. 

Carriera 

Pagelle ai magistrati anche dagli avvocati 

Come il terzo e il quinto, è uno dei quesiti considerati più tecnici sulla materia. Riguarda le cosiddette “pagelle” ai magistrati (scheda grigia), le valutazioni a cui ogni singolo giudice è sottoposto nell’arco della propria vita lavorativa che ne determinano l’avanzamento di carriera. Il compito di dare “i voti”, secondo la legge, spetta al Consiglio superiore della magistratura (Csm), che è l’organo di autogoverno dei giudici, al Consiglio direttivo della Corte di Cassazione e ai consigli giudiziari. Ne esistono 26, uno per ogni distretto, integrati da avvocati e professori di diritto che però, in base alle norme attuali non possono esprimere giudizi. Se vince il Sì, il diritto di valutare l’operato dei magistrati e incidere sulle loro carriere (quasi sempre promosse a pieni voti dai colleghi) viene esteso anche a legali e giuristi. Chi vota No, sostiene che un avvocato potrebbe trovarsi in conflitto di interesse, dovendo esprimersi su un giudice che in passato potrebbe averlo penalizzato in aula. Un punto preso in esame anche dalla riforma Cartabia: la riforma mira a estendere il voto non ai singoli legali, ma all’Ordine degli avvocati territoriale nel suo complesso. 

Corsa al Csm 

Cancellare le firme e indebolire le correnti 

L’ultimo quesito (scheda verde) chiede di abrogare la norma che impone l’obbligo, per ogni magistrato che voglia candidarsi a far pare del Csm (l’organo che governa i giudici), di essere “presentato” da un gruppo di colleghi. Il Consiglio superiore della magistratura è così composto: per due terzi da membri “togati” (giudici eletti da altri giudici) e per un terzo da membri “laici” nominati dal parlamento. Oggi i magistrati che vogliono correre al Csm hanno bisogno di essere sostenuti da almeno 25 firme di altri magistrati per poter proporre la propria candidatura. Una norma che, sostiene chi vota Sì - dunque per la sua abrogazione - aumenta il potere delle correnti tra le toghe, penalizzando quei magistrati che invece non appartengono ad alcuna fazione e che lavorano in uffici giudiziari più piccoli. Chi vota No, invece, afferma che un qualche tipo di scrematura è necessario, e che cancellare le firme non servirà a diminuire la deriva del correntismo. Anche perché, sottolineano i contrari, l’obbligo di presentare tra le 25 e le 50 firme a sostegno di un candidato al Csm sarebbe in ogni caso eliminato dall’approvazione della riforma Cartabia. 

© RIPRODUZIONE RISERVATA