Fano, rogo per rivalità commerciale
Piccoli assolto: credete nella giustizia

L'imprenditore Giovanni Piccoli
L'imprenditore Giovanni Piccoli
di Lorenzo Furlani
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Giovedì 21 Marzo 2019, 14:46
FANO «Adesso è finita. Quasi 5 anni di sofferenza per tutti, familiari, parenti, amici, passati a denti stretti, ad aspettare. Credeteci nella giustizia, sempre, che poi la verità arriva...». L’annuncio è giunto direttamente da Giovanni Piccoli via Facebook appena la Corte d’appello di Ancona aveva pronunciato la sentenza che rigetta l’impugnazione da parte della procura della Repubblica - per la sola posizione di Piccoli - del verdetto del Tribunale di Pesaro sull’incendio che il 15 giugno 2010 mandò in fumo il Pesce Azzurro.

«Non ha commesso il fatto»
I giudici di secondo grado hanno confermato l’assoluzione, per non aver commesso il fatto, dell’imprenditore fanese, accusato di essere stato il finanziatore (con la somma di 25mila euro) del piano ordito dai titolari di allora del vicino ristorante Portonovo, che volevano togliere dal mercato il self service della Coomarpesca perché faceva loro una concorrenza troppo efficace. Il sostituto procuratore generale ieri aveva chiesto la condanna a 3 anni di reclusione non accolta (in primo grado la richiesta fu di 4 anni e 6 mesi).

I coniugi Giuseppe Del Carmine e Simonetta Fabbri, gestori del ristorante, condannati in primo grado come mandanti del raid incendiario, avevano a loro volta appellato la sentenza attraverso l’avvocato Nicola Mastropasqua, professando la loro estraneità all’episodio. Anche in questo caso, la Corte d’appello ha rigettato l’istanza, confermando quindi la condanna a 7 anni e 6 mesi di carcere per lui e a 4 anni anni per lei.

L'argomentazione vincente
L’argomentazione dell’avvocato Giovanni Chiarini è stata decisiva per Piccoli, che all’epoca dell’incendio era in rapporti d’affari con il ristorante Portonovo ed è noto in particolare per essere stato negli anni 2012 e 2013 socio di minoranza e direttore generale del Fano calcio. «L’accusa si reggeva sulla testimonianza di un tunisino assunto dal ristorante per stare alla cassa - dichiara l’avvocato -. Piccoli con la sua attività riforniva il ristorante di prodotti alimentari, vantava un credito di 4/5.000 euro e per favorire la gestione aveva accettato di acquisire per quelle pendenze il 20 per cento della società, garantendo al contempo in banca le linee di credito dei ristoratori. In qualità di socio aveva criticato l’impiego alla cassa di quel dipendente extracomunitario, di cui non si fidava. Dopo questi fatti il tunisino era stato arrestato per altre vicende. Quando il magistrato l’aveva interrogato in carcere, lui, per vendicarsi, aveva tirato in mezzo Piccoli, inventando il racconto secondo il quale aveva portato al ristorante i soldi per pagare gli esecutori dell’incendio. Ma non è stato trovato alcun riscontro oggettivo a quelle dichiarazioni perché non erano vere. Ora la reputazione di Giovanni Piccoli deve essere riabilitata».

La discussione è durata un paio di ore e la Corte è rimasta in camera di consiglio per circa un’ora prima di emettere la sentenza. È ancora possibile un ricorso in Cassazione.

L'origine dei sospetti
Sui due ristoratori di origini pugliesi i sospetti si erano appuntati subito per una tanica di benzina di marca tedesca rinvenuta intatta all’esterno del Pesce Azzurro e riconosciuta come propria da un carabiniere che poco tempo prima aveva affittato alla coppia un casale a Mombaroccio, adattato a ristorante, dove erano venuti a mancare degli oggetti, tra cui proprio quella tanica. Le intercettazioni telefoniche e ambientali avevano consentito poi di comporre tutto il quadro dell’accusa.

Definitive le altre condanne
Secondo quanto accertato processualmente, il ristorante self service della Coomarpesca fu dato alle fiamme per la rivalità commerciale dei titolari del vicino ristorante, che attraverso un intermediario della Puglia, loro regione d’origine, ingaggiarono due fratelli conterranei per appiccare l’incendio. L’intermediario era Vincenzo Mastrodonato, condannato in primo grado a 7 anni e 6 mesi di reclusione, gli esecutori furono Giulio e Francesco Povia, 6 anni e 9 mesi per il primo e 4 anni per il secondo. Questi tre non hanno impugnato la sentenza del Tribunale di Pesaro e la loro condanna quindi è definitiva dal 2017.
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