PESARO I guantoni sono ancora intrisi di sudore e sangue quando
Luigi Minchillo, sdraiato sul lettino dello spogliatoio della
Joe Louis Arena, piange e bacia la foto dei suoi bambini. Gli occhi sono ridotti a fessure per i colpi presi dal cobra mancino
Thomas Hearns ma le lacrime trovano lo stesso un varco per rigare il viso. Anche i guerrieri, a volte, piangono. «Dovevo nascere più fortunato ma non devo lamentarmi – disse -. Farò vedere il filmato del match ai miei figli ma voglio che mi giudichino come padre e uomo». Detroit, 12 febbraio 1984: in palio la cintura mondiale della Wbc. Minchillo
ha baffi e frangetta, come Kallie Knoetze, il pugile cattivo di Bomber, film cult con
Bud Spencer. Solo che lui, foggiano trapiantato a
Pesaro, quello che l’immancabile mitologia pugilistica ha ribattezzato “Il guerriero del ring”, vinceva.
E se lo sarebbe meritato anche in quella notte americana. Perché sul ring metteva anche tecnica e intelligenza, oltre ad essere un incassatore come pochi. «Alla decima ripresa Hearns aveva abbandonato, anche se stava vincendo ai punti...
non ce la faceva». L’arbitro decise diversamente. Minchillo era salito sul ring a 16 anni («Ero esuberante«), scese a 33 dopo aver fallito a Rimini la riconquista del titolo europeo. Incrociò i guanti con i migliori, fu olimpionico (Montreal ‘76), bi-campione italiano ed europeo mancando la corona mondiale per due volte (la seconda, a Milano, contro McCallum).
Gli anni di Rocky
Ma la boxe è fatta di sconfitte e ritorni, sudore e vittorie diventate epiche. E lui incarnò quello spirito fino all’ultimo, negli anni dei calzoncini marchiati Totip, dei microfoni che calavano dall’alto, della saga di Rocky, del pubblico con la sigaretta in bocca e delle sfide con Duran («Non aveva la mano di pietra»). I guantoni erano allora trasversali, seguiti da tutti grazie a Kalambay, Stecca, Damiani, Oliva e lo stesso Minchillo che, in tutta la sua carriera, andò Ko solo una volta, a 17 anni, contro Ray Sugar Leonard. «La Boxe oggi? I talenti ci sono, mancano i soldi di una volta – è il suo testamento sportivo -. Non c’è la volontà di far andare avanti il pugilato».
Gianluca Murgia
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