Uccisa il giorno di Natale perché rifiutò un rapporto sessuale: il pm chiede 24 anni per Vito Cangini

Uccisa il giorno di Natale perché rifiutò un rapporto sessuale: il pm chiede 24 anni per Vito Cangini
di Luigi Benelli
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Giovedì 19 Maggio 2022, 07:25

PESARO - Omicidio di Natale, c’è la richiesta di condanna del pm: 24 anni. Tra una settimana la sentenza. Ieri mattina si è aperto il dibattimento per il processo nei confronti di Vito Cangini, 80enne reo confesso dell’omicidio della moglie Natalya Kyrychok, 61 anni ucraina, cuoca di un ristorante a Misano. La donna è stata uccisa nella notte tra il 25 e il 26 dicembre, con 12 coltellate, una delle quali ha raggiunto cuore e polmone, cosa che le ha provocato la morte. Il delitto nella villetta di Gradara dove la coppia abitava. Cangini era in aula, seduto accanto ai suoi avvocati Fiorenzo e Alberto Alessi.

È accusato di omicidio volontario aggravato dai motivi abietti e dal vincolo coniugale. I familiari della vittima non si sono costituiti parte civile, starebbero cercando un accordo in sede civile. Il pubblico ministero Giovanni Narbone nella sua requisitoria ha sottolineato come «non tutti gli omicidi siano da ergastolo». 

Reo confesso

Prima di formulare le richieste ha ripercorso i fatti parlando di un «atto molto grave», sottolineando sin da subito come l’imputato sia «reo confesso» e come vi sia una «responsabilità riconosciuta». Un omicidio definito «violento, con 12 coltellate». Poi si è soffermato sull’aggravante della gelosia. Cangini era convinto che la moglie lo tradisse con il suo datore di lavoro al ristorante, ma la cosa è stata smentita anche dai rilievi tecnici sui cellulari. Non ci sarebbe traccia della relazione di cui il marito sospettava, ma Natalya stava frequentando qualcuno, cosa dimostrata anche in sede di autopsia perché è emerso che aveva consumato un rapporto sessuale. Narbone ha parlato di «una ossessione per Cangini, quella del tradimento» e di un «senso di inadeguatezza». L’impeto omicida sarebbe scattato proprio per l’idea che lei lo tradisse. La notte a cavallo tra Natale e Santo Stefano Cangini aveva assunto il Viagra perché la moglie gli avrebbe fatto intendere che avrebbero consumato un rapporto.

Ma di fronte al suo rifiuto, una volta rientrata a casa dal lavoro, Cangini ha pensato che quella fosse la prova che lei avesse un altro. E ha temuto di perderla definitivamente. Così sarebbe scattato l’impeto. L’imputato sarebbe andato a prendere il coltello in cucina per colpirla a morte. Prima però la donna ha cercato di difendersi come testimoniano alcuni lividi ed escoriazioni che sono state riscontrate sulle braccia, sulle mani come per parare i colpi e sulla schiena. È stata trovata una ferita anche in una gamba. Dunque il coltello non era sotto il letto, come emerso nelle prime ore, messo dalla donna che aveva paura del marito tanto da aver dormito due notti dalla signora anziana che accudiva come badante nelle ore in cui non era impegnata al ristorante. Narbone ha parlato di un «chiaro fatto di femminicidio». Poi, si è messo a dormire col cadavere a terra, in camera, e una volta svegliatosi al mattino ha fatto colazione, ha preso il suo cane ed ha fatto una passeggiata. Ha iniziato a bere e ha confessato l’omicidio prima a un vicino di casa, invitandolo a chiamare i carabinieri. Poi alle amiche di lei e al datore di lavoro della moglie, il suo presunto amante. Quasi come se volesse liberarsi. E a lui avrebbe anche detto: «Ti avevo promesso che te l’avrei fatta pagare, adesso non vedrai più Natalya». Il pm ha quindi formulato le richieste. Ha sottolineato l’età dell’imputato, la sua vita «immacolata fino a 80 anni». Ha riconosciuto la confessione e la collaborazione durante il processo. Infine ha sottolineato il «pentimento». Il pm ha chiesto alla corte che le attenuanti siano equivalenti alle aggravanti (l’aver ucciso il coniuge e i motivi abietti della gelosia ndr) e la condanna a 24 anni per l’imputato. La sentenza arriverà il 25 maggio, dopo l’arringa degli avvocati Fiorenzo e Alberto Alessi che hanno solo rilevato a margine: «Si tratta di un processo di pena, non di responsabilità».

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