Silvia rapita in Africa, la presidente Onlus a Le Iene: «Senso di colpa? Sì, ma non sono mai stata indagata»

Fano, Silvia rapita in Africa, la presidente Onlus a Le Iene: «Senso di colpa? Sì, ma non sono mai stata indagata»
Fano, Silvia rapita in Africa, la presidente Onlus a Le Iene: «Senso di colpa? Sì, ma non sono mai stata indagata»
di Osvaldo Scatassi
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Giovedì 12 Novembre 2020, 09:32

FANO - Chakama, un piccolo villaggio rurale del Kenya, è stato un colpo di fulmine per la fanese Lilian Sora, la presidente dell’Onlus Africa Milele. Il luogo ideale per avviare un progetto di cooperazione internazionale, ma due anni fa esatti si è trasformato nello scenario da incubo che ha toccato la sua «vita, la famiglia, i sogni e i progetti».

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La sera del 20 novembre 2018 era rapita a Chakama la cooperante milanese Silvia Romano, a quel tempo ventitreenne volontaria dell’associazione fanese. Un episodio drammatico, che la trasmissione Le Iene (Italia 1) ha ricostruito l’altra sera. 

Il ritorno in Italia

Il servizio è iniziato dal ritorno in Italia di Silvia e dall’accoglienza terribile che le fu riservata da razzisti e leoni da tastiera, indignati nell’apprendere che la giovane cooperante lombarda si fosse nel frattempo convertita all’Islam, la stessa religione dei suoi sequestratori.

Nei confronti della giovane donna parole offensive e crudeli, che in qualche modo riuscirono a turbare momenti di gioia anche in Africa Milele, una piccola Onlus impegnata a Chakama in un progetto a favore dell’infanzia (attività scolastica e assistenza sanitaria ai bambini). «Sto realizzando soltanto adesso che è tutto vero, sono strafelice», aveva detto Sora proprio in quelle ore alla troupe di Rainews24. 

Le critiche da tutti

Erano però già nell’aria critiche assai serrate all’operato dell’associazione fanese: la stessa famiglia di Silvia Romano si espresse con una certa durezza. Questi temi sono approfonditi dalla trasmissione di Italia 1: la presidente di Africa Milele ha ribattuto agli appunti, fornendo le sue risposte e manifestando un’intima sofferenza per il riaprirsi di una ferita ancora aperta: «Ci ho messo tanto tempo a togliermi il senso di colpa – ha detto Sora alla troupe di Le Iene – che ho provato perché Silvia era al posto mio. Sono la presidente dell’associazione e mi assumerò tutte le mie responsabilità, se un giorno sarà detto che ho colpe. Personalmente, non sento di averne per ciò che è accaduto». Per Sora una prova aspra, difficilissima. Un tuffo al cuore intorno alle 19.20 del 20 novembre 2018 quando Jospeh, il suo compagno e responsabile della sicurezza nella struttura a Chakama, una casetta con tre stanze e un bagno, le inviò il messaggio che annunciava il rapimento di Silvia. «L’ho subito cercata al telefono – ha raccontato la cooperante fanese alla troupe di Italia 1 – ma lei non rispondeva. Ho notato a quel punto che non aveva visualizzato un mio precedente messaggio. Ci eravamo sentite al telefono poco prima». Joseph, come l’altro addetto alla sicurezza, John, appartiene alla tribù Masai: l’unica che, per la sua autorevolezza, può circolare in Kenya con il bastone da difesa o con il machete. Sembra però evidente che il confronto sarebbe stato impari, davanti a un numeroso gruppo armato di fucili d’assalto Ak-47 (si parlava anche di una granata). Ciononostante Jospeh si è messo all’inseguimento dei sequestratori, che hanno riaperto il fuoco al momento di guadare un fiume: «Ero al telefono con lui e sentivo gli spari. Mi diceva: se vuoi li seguo, ma sono disarmato».

Le fasi dell’assalto

Sora ha confermato a Le Iene che il rapimento è avvenuto proprio mentre i due addetti alla sicurezza si davano il cambio: «Per coincidenza Silvia si è trovata da sola, quando i rapitori entravano in azione e in quel momento John era sul retro dell’edificio». Un dettaglio della ricostruzione, la posizione dell’addetto alla sicurezza, che però non è stato confermato da un testimone diretto. Dopo la liberazione Sora, il 15 maggio scorso, ha subito la perquisizione del Ros dei carabinieri. Ma ha specificato di non essere indagata e ha tenuto a sottolineare come nulla lasciasse presagire un attacco terroristico (le indagini lo riconducono al fondamentalismo somalo), perché Chakama non era inserita «nell’area pericolosa».

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