Il primario nella trincea di Marche Nord: «Il virus era qui da gennaio, ho pianto per i miei colleghi fantastici»

Il primario nella trincea di Marche Nord: «Il virus era qui da gennaio, ho pianto per i miei colleghi fantastici»
Il primario nella trincea di Marche Nord: «Il virus era qui da gennaio, ho pianto per i miei colleghi fantastici»
di Andrea Taffi
5 Minuti di Lettura
Venerdì 27 Marzo 2020, 10:26

PESARO - Umberto Gnudi, 53 anni, bolognese, moglie e due figlie a casa che lo ricevono in mascherina, è il primario del pronto soccorso di Pesaro. Insieme al collega Michele Tempesta, primario di Anestesia e Rianimazione di Marche Nord a Pesaro, è diventato - a sua insaputa - uno dei colonnelli del Piave marchigiano. A sua insaputa perché il 14 gennaio era un soldato semplice poi il suo direttore Loffreda è partito per un'esperienza professionale negli Emirati Arabi e lui da vice ha gestito uno tsunami. Da due settimane è primario facente funzione.
 


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Da dove partiamo? Si fa fatica a trovare il bandolo della matassa.
«Partiamo da mercoledì: avevamo avuto 5 pazienti in meno e ci eravamo illusi. Oggi ne abbiamo avuti 5 in più. Siamo daccapo nella linea dei 40 di media: tutti Covid, buona parte boccheggianti. Se possibile li rimandiamo a casa con terapia, molti hanno bisogno di ricovero e di questi un'alta percentuale ha bisogno di ossigenazione o ventilazione». 
Come stiamo con i letti?
«Stiamo aprendo il prefabbricato regalatoci da un imprenditore della zona. Nella notte che arriva saremo in grado di ospitarvi 10 degenti tra i più gravi che hanno bisogno di ventilazione non invasiva, diciamo la fase precedente all'intubazione». 
 
Tende, tensostruttura, prefabbricato. Nelle Marche sono venuti tutti dietro di voi. In un contesto dove il limite si sposta sempre in avanti qui sembra impossibile misurare il mare. Come si misura questo mare?
«Una bracciata alla volta. Ci siamo trovati un nemico sconosciuto senza nessuno sapesse quali armi fosse corretto usare. Andiamo per tentativi e uniamo i punti positivi e quelli negativi».
Dove siete arrivati?
«A occhio cominciamo a capire: va peggio per i maschi, persone obese, diabetici, ipertesi. Altri sintomi di presentazione invece vengono correlati a prognosi benigne: la perdita dell'olfatto, l'alterazione del gusto. Ma non sono in grado di sottolineare evidenze scientifiche».
Anche lei pensa che le final eight di Coppa Italia di basket a Pesaro abbiano scatenato l'apocalisse?
«No. Il virus era qui da prima. Il basket ha solo moltiplicato. Stamattina un conoscente mi raccontava della diagnosi di un'infezione avuta a gennaio: tutti i sintomi light del Covid-19. Era da poco rientrato a Milano. Gli ho detto: era il Covid e non te ne sei accordo. Ma le racconto anche un altro aneddoto».
Prego.
«À gennaio per l'influenza comune abbiamo avuto un picco. Noi e la Lombardia avevamo il 25% di malati di influenza a fronte di una media nazionale del 12/13%. Erano tutti bambini: classi decimate, febbri alte. I pediatri hanno parlato di una cosa inusuale. A bocce ferme varrà la pena di ripensarci un attimo».
Come tiene su di morale il suo team?
«Sono fantastici, francamente ci vuol poco per tenerli su. Intanto non chiedo a loro di fare cose che io non posso fare. Se ho bisogno che uno venga a coprirmi un turno in non lo devo chiedere, le persone si offrono. Piuttosto devo stare attento e cercare di capire quando le persone devono riposare. Emotivamente questa è una prova molto dura. Bisogna stare anche un po' fuori da qui: l'ondata iniziale è stata tremenda».
Non eravate preparati?
«No, è diverso. Mentre in Lombardia c'era la percezione del dramma, della guerra in corso, qui abbiamo fatto un po' di fatica a farlo capire io e il collega della Rianimazione». 
Poi cosa è successo?
«Da subito ci sono venuti dietro a partire dalla direzione: abbiamo cominciato a comportarci da zona rossa già un giorno e mezzo prima che venisse proclamata. Ora ci siamo strutturati. La speranza è che basti».
Le sue lacrime sul Tg1 dopo i primi 4 giorni di Coronavirus nelle Marche hanno commosso l'Italia.
«Difficile fare altrimenti, eravamo tutti molto provati. Avevo visto cose meravigliose dei miei colleghi e bisognava rendergliene atto. Qui mi pare di correre i 400 metri: arrivi alla fine della seconda curva e ti pare di rendere l'anima a Dio. È la gara peggiore dell'atletica. Ecco, noi è come se corressimo un 400 dietro l'altro. Una maratona di 400 metri».
La sua giornata tipo?
«Nella prima fase mi svegliavo alle 4 e arrivavo in ospedale alle 5.30. In mezzo, di tutto: lavoro in prima linea e lavoro di organizzazione: quei giorni sono stati quelli dell'una bracciata alla volta. È stato come inventare, arrangiarsi: noi come italiani e come medici di pronto soccorso siamo abituati a utilizzare il pensiero laterale. A letto alle 22.30, una volta sono arrivato a casa a mezzanotte e mezzo il 18 marzo sul 19, quando le mie figlie mi hanno aspettato per la Festa del papà».
E adesso, invece?
«Ora va meglio, forse per il fatto che sono stremato (sorride, ndr): diciamo che conosciamo cosa abbiamo davanti. Non sta calando ma ha smesso di crescere, è un ottima notizia. Sarà lunga, però».
E cosa pensa quando va a dormire?
«Se abbiamo fatto tutto il possibile».
E qual è la risposta?
«Spesso sì, quasi sempre: altro che, abbiamo fatto di più. Penso anche che è un giorno in meno che manca alla fine di questa storia».
A proposito, quando finisce?
«All'inizio quando mi chiedevano la stessa cosa rispondevo: aspettiamo il 27, il giorno di paga.
Di solito è un giorno in cui ti si allarga il respiro. Vorrei tanto che domani (oggi per chi legge, ndr) fosse un giorno del genere».

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