Paolo Rossi, «Io, papà e il giorno in cui Pablito uccise il Brasile»

Paolo Rossi, «Io, papà e il giorno in cui Pablito uccise il Brasile»
Paolo Rossi, «Io, papà e il giorno in cui Pablito uccise il Brasile»
di Michele Di Branco
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Giovedì 10 Dicembre 2020, 15:04 - Ultimo aggiornamento: 16:15

Faceva un caldo terribile quel 5 luglio 1982 al Sarrià e noi italiani appollaiati sulle tribune di quel vecchio stadio di Barcellona eravamo come degli indiani assediati dalla marea gialla dei brasiliani. Vittime predestinate dei sudamericani, belli, forti, invincibili, destinati a portarsi a casa la Coppa del Mondo. Figuriamoci: dovevamo vincere per passare il turno e le nostre speranze di far gol erano affidate ad un ragazzo con la maglia numero 20 sulle spalle, reduce da due anni di squalifica, che nelle prime quattro partite del torneo non aveva beccato un pallone.

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Magro, pallido, smunto. Con mio padre eravamo seduti in tribuna centrale e qualche fila sopra di noi alcuni giornalisti mugugnavano contro l’allenatore Bearzot. «Ma perché insiste a farlo giocare?». Paolo Rossi quel pomeriggio era solo contro tutti.

Ma nei 90 minuti più indimenticabili della mia vita di tifoso della nazionale rovesciò il pianeta.

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Fece gol di testa dopo pochi minuti sbloccandosi, ne fece un altro un quarto d’ora dopo rapinando un pallone ai verde-oro che si trastullavano nella loro metà campo. E infine, sul 2-2, corresse di destro un tiro sbilenco di Tardelli e infilò il gol della vittoria. Un gol tipico della sua carriera e di quel mondiale. Un gran mischione confuso, un groviglio di corpi e gambe, la palla che finisce in rete, un mucchio di abbracci e tu che ti chiedi chi ha segnato, nella confusione. «Paolo Rossi», ovvio. L’ultimo quarto d’ora fu drammatico.

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Dovevamo conservare il 3-2 per andare in semifinale e l’atmosfera era mefistofelica. Ricordo la stretta di mano di mio padre per darci forza, il picchettìo della Olivetti di Gianni Brera proprio dietro la mia testa, gli attacchi disperati del Brasile che si buttava dentro la nostra area di rigore e il tempo umido e sospeso che non passava mai. Poi, nel giro di pochi secondi, una incredibile sliding doors. Prima un guardalinee maledetto ci annulla il gol del 4-2 per un fuorigioco inesistente di Antognoni. E sul ribaltamento di fronte punizione dal limite per loro. Dentro l’area c’è una bolgia dantesca. E’ l’ultima occasione: lo sanno loro, lo sappiamo noi, lo sanno tutti dentro lo stadio.

Batte Eder e lo stopper Oscar Bernardi si alza e schiaccia di testa a botta sicura. Se chiudo gli occhi, a distanza di 38 anni, posso ancora sentire, nel silenzio sospeso dello stadio, il rumore dell’impatto del pallone sulla fronte. Zoff, non so bene come, la inchioda sulla linea e la paura è che l’arbitro possa confondersi assegnando il gol. Non è così. È finita. Restiamo io e papà seduti e abbracciati per mezz’ora. Sulle tribune i brasiliani, colorati, che fino a due ore prima avevano ballato al ritmo di samba, stringono la testa tra le mani. Paolo Rossi ha ribaltato il mondo. E in qualche modo, in quel momento, sento che ha tirato tre pedate agli anni oscuri del Paese.

 

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