«Voglio formare imprenditori per il rilancio delle Marche»

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Mercoledì 20 Novembre 2019, 05:05
ANCONA
G ian Luca Gregori, magnifico rettore dell'Università Politecnica delle Marche, ha scelto il Corriere Adriatico per la sua prima intervista. Rettore, come sta l'Università di Ancona?
«Partiamo dagli aspetti più concreti: la solidità patrimoniale ed economica dell'ateneo. Non è una condizione frequente e si deve all'attenta gestione del rettore Marco Pacetti, che ha dato efficacia dal punto di vista economico e organizzativo a tutta la struttura».
Sufficiente per andare avanti?
«Direi sostanziale. In secondo luogo, sottolineerei l'apertura al territorio innescata dal professor Sauro Longhi. Una strada sulla quale continuerò a camminare, tant'è che il mio programma strategico s'intitola Innovazione nella continuità. M'impegno a mantenere e a sviluppare tutti i rapporti già avviati con le istituzioni».
Nessuna criticità?
«Certo, ci sono anche quelle».
Una su tutte?
«L'andamento delle immatricolazioni: dal 2014-2015 al 2018-19 siamo passati da 16.091 a 15.383 studenti, con una diminuzione di 700 unità».
Come mai questo calo?
«È collegato a un fenomeno nazionale e cioè allo spostamento dal sud al nord dei giovani. Una preferenza che penalizza anche noi del centro. Da evidenziare, inoltre, il numero di studenti stranieri: rappresentano una quota inferiore all'1%, troppo bassa. Infine, ci sono alcuni aspetti organizzativi che debbono essere affrontati».
Per esempio?
«Il peso della burocrazia schiaccia anche noi. C'è la necessità di aumentare la digitalizzazione e l'efficienza organizzativa. Senza dimenticare un altro elemento di svantaggio: il personale tecnico-amministrativo è diminuito incrementando, purtroppo, la componente a tempo determinato».
Largo al futuro.
«Il programma strategico del mio mandato l'ho redatto con Marco D'Orazio, pro rettore vicario e preside d'ingegneria, che ha anche la delega con firma per l'edilizia. Insieme abbiamo individuato due aree fondamentali d'intervento».
La prima?
«La forte integrazione con il territorio, con tutte le organizzazioni, sanità compresa. Ci troviamo di fronte alla necessità di tener conto del contesto e non possiamo nasconderci che sia critico».
E come pensa di rispondere alle difficoltà?
«Differenziando il tipo di approccio. Nelle Marche ci sono sempre meno imprese grandi: con queste vanno instaurate collaborazioni che privilegiano il concetto di filiera, così come è stato fatto in Emilia Romagna. Poi ci sono moltissime piccole aziende e con queste dobbiamo puntare con forza sull'integrazione. Per citare Fuà, dobbiamo essere economisti utili».
Una visione che riguarda solo la facoltà di Economia?
«No, affatto. Tutte le aree culturali della nostra università sono coinvolte in questo processo d'innovazione: le competenze insegnate, una volta, duravano per tutta la vita professionale; oggi sono mutevoli, diventa perciò fondamentale la dinamicità dell'apprendimento, con un potenziamento del trasferimento tecnologico e del public engagement».
In pratica?
«Dobbiamo insegnare ad apprendere velocemente».
Parlava di due prospettive. La seconda?
«È quella internazionale: ci sono pochi stranieri all'Università di Ancona. Pensiamo quindi ad accordi che consentano di richiamare dall'estero sia professori sia studenti. Si tratta di puntare su una didattica innovativa, che abbia un'alta capacità attrattiva».
Come si ottiene?
«Mettendo la ricerca al centro della nostra attività, creando quella che io definisco Research University».
Ancona Lab?
«Esatto».
Il suo impegno in Campus World è un punto di partenza. Ma se mandiamo i nostri studenti in giro per il mondo, non si corre il rischio di non vederli tornare?
«Tutt'altro, quel programma di mobilità studentesca va allargato a tutte le facoltà. Si tratta piuttosto di favorire la circolarità: i ragazzi vanno e debbono rientrare».
Per fare cosa e soprattutto dove?
«Partiamo dai numeri».
Prego.
«Una buona percentuale di quei giovani rientra in Italia. Per il dove, ovvero le Marche, non dobbiamo distrarci dal nostro contesto territoriale dove le imprese continuano a diminuire. Quindi, l'università che finora s'è concentrata sull'istruire professionisti e manager, adesso deve compiere il salto e formare imprenditori».
Il metodo?
«Fertilizzare il territorio con l'interdisciplinarietà per far sì che le idee si concretizzino davvero. Il Contamination Lab, il laboratorio che si alimenta di universitari e dottorandi di discipline diverse, è una strada, poi ci sono gli spin off».
Tuttavia il quadro di riferimento resta in grande difficoltà.
«Non si sfugge, i conti si devono fare sempre con ciò che si ha. Le grandi imprese sono diminuite: perché è venuta meno la Cassa del Mezzogiorno nell'Ascolano; perché sono crollate le vendite dei prodotti del Fabrianese. Abbiamo un tessuto di medie imprese non grandissimo: sono strutturate e hanno bisogno di manager. Poi c'è tutto il sistema della piccola che va segmentato, perché lì dentro c'è di tutto».
In sostanza, non può esistere una sola risposta.
«L'Università deve plasmare il suo contributo su modelli di business diversi. Il settore della calzatura non ha le stesse esigenze di chi produce componenti senza un brand».
Ma questa battaglia non si può combattere da soli. Non trova?
«Territori diversi dovrebbero pretendere normative diverse. Sempre per parlare di calzaturiero: si caratterizza per un alto costo del lavoro, così parte della produzione, come taglio e orlatura, va all'estero, in questo modo si perde know how. Serve abbassare il costo del lavoro, ma questo è un problema nazionale ed europeo».
Cambio di prospettiva. Le fusioni tra piccoli come le vede?
«Bene, ma a patto che siano realizzate con con progetti credibili».
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