Welfare, se l'impresa diventa amica del “privato sociale”

Welfare, se l'impresa diventa amica del “privato sociale”
di Osvaldo De Paolini
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Mercoledì 30 Settembre 2020, 12:05 - Ultimo aggiornamento: 1 Ottobre, 10:02
La persona al centro. Non è più uno slogan. La pandemia ha trasformato il pianeta in un posto fragile, nel quale vivere non è facile né scontato. L’emergenza ha cambiato bruscamente i modelli di riferimento, sicché il Welfare State in gran parte ridotto a vecchio arnese del passato, si è ripreso la scena; e con esso il ruolo dello Stato. Ma sotto traccia, come se emergesse dalla cortina di polvere levatasi per il crollo di tanta parte delle nostre certezze economiche e sociali, si è rifatto vivo il ruolo del privato. Non solo il privato tradizionale, quello evocato abitualmente come antagonista o integrativo del pubblico nella protezione sociale dei cittadini. Quel privato sociale sembrava relegato alla gassosa sfera del volontariato, delle buone pratiche individuali o collettive, ma sempre marginali rispetto alla quotidiana battaglia tra orsi e tori: l’opportunità di profitto sembrava non avere nulla a che fare con il bisogno di sostegno e di assistenza qualificata. Nel frattempo sui luoghi di lavoro, spesso trasferiti nella cucina di casa a causa dell’irrompere dello smart working, le persone hanno manifestato le loro fragilità, non solo legate alla tutela della salute fisica, ma anche all’equilibrio psicologico. I bisogni collegati al nucleo familiare – educazione dei figli, scolarità, assistenza agli anziani, bilanciamento di vita e lavoro quando si è persa la distinzione tra luogo di lavoro e di vita – sono esplosi, rinnovati, ma sempre più urgenti. Sicché il nuovo Welfare – in Italia, ma non solo – non riesce più a essere contenuto entro i modelli tradizionali di Bismarck o di Beveridge, nordeuropeo o mediterraneo. Il Covid ha mandato in tilt gli schemi ai quali ci eravamo abituati. E ha riproposto la centralità delle persone, delle loro nuove esigenze, che sempre riguardano previdenza e sanità, assistenza e formazione, ma secondo paradigmi che devono essere rinnovati. Il nuovo Welfare deve perciò ripartire dalle persone. Dal loro bisogno di “autorialità” come spiega Stefano Zamagni nell’intervista pubblicata all’interno; e dal loro rinnovato orizzonte sociale: la famiglia con al centro il “maschio adulto”, come osserva il demografo Alessandro Rosina, non può sostituirsi alle nuove politiche attive del lavoro per recuperare i giovani inattivi o per recuperare al lavoro le donne che non riescono più a conciliare famiglia e lavoro, indotte sempre più spesso a scegliere tra essere mamme (sempre meno) e essere lavoratrici (sempre meno). Vecchi nodi vengono al pettine – non si può non guardare con preoccupazione al basso tasso di adesione alla previdenza complementare – e nuovi orizzonti e nuovi bisogni emergono sul fronte della tutela della salute. O dell’assistenza sociale. La frammentazione, dei bisogni e degli “erogatori” di risposte a questi bisogni, è uno dei grandi nemici da combattere per ridisegnare il nuovo Welfare. Sempre più necessari sono i contributi che favoriscono l’integrazione. Anche per questo occorre riscoprire un welfare generativo e non solo redistributivo, un welfare “tripolare” che al pubblico e al privato aggiunge il ruolo decisivo del “privato sociale”, della cooperazione, del volontariato. 

A condizione che questi soggetti che animano il Terzo settore sappiano evolvere nelle competenze e nei linguaggi, e nella cultura che sappia incontrare e riconoscere il valore dell’impresa, che non è nemica, ma partecipe dello sviluppo della società, delle comunità, dei territori. L’innovazione e la digitalizzazione sono condizioni per favorire il superamento di questa frammentazione. Innovazione e digitalizzazione sono condizioni irrinunciabili anche nella riforma del Welfare, mentre la persona al centro è il criterio che riuscirà a farci modellare il futuro della protezione sociale in un momento in cui – per paradosso – le risorse non sembrano più un problema. A condizione, naturalmente, che il Recovery Plan sappia dare spazio adeguato alle infrastrutture sociali accanto a quelle fisiche e soprattutto digitali. 
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