Carlo Capasa, presidente della Camera Nazionale della moda: «Abbiamo superato tanti pregiudizi, ora serve parità»

Carlo Capasa, presidente della Camera Nazionale della moda: «Abbiamo superato tanti pregiudizi, ora serve parità»
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Mercoledì 28 Ottobre 2020, 10:43 - Ultimo aggiornamento: 29 Ottobre, 07:00

Se tocchi il tasto “donne” Carlo Capasa parte in quarta: «La diversità di genere è la più importante, ma noi abbiamo fatto un manifesto anche per tutte altre: colore della pelle, cultura, religione, orientamento sessuale, per non parlare delle famose capacità fisiche. Abbiamo avuto come testimonial la modella brasiliana Paola con una gamba amputata, la modella trans Lea T., il nostro obiettivo è dare accesso a tutte le differenze. E se la moda è il settore con la più alta quota di occupazione femminile, il 57% considerando solo l’industria e non il retail, è vero anche che il salario effettivo delle donne è inferiore del 20% rispetto a quello degli uomini: un gap da colmare a tutti i costi». Capasa ne fa una battaglia culturale, oltre che economica, e dice che non parlerebbe così se non avesse «una femminista in casa».

Salentino, 62 anni, è sposato con l’attrice Stefania Rocca, è padre di Luca e Zeno e fratello dello stilista Ennio. Da cinque anni guida la Camera Nazionale della Moda Italiana. L’ultimo è stato il peggiore, con la pandemia che ha bloccato sfilate, stilisti, vendite, esportazioni. Ma come ha detto lui, con il virus «bisogna convivere, senza aspettare che tutto si risolva».

Partiamo da quel 20% di salario più basso, cosa fare?

«Non è accettabile. Non lo sarebbe neanche se fosse l’1 per cento. Certo, in Pakistan le donne guadagnano la metà degli uomini, ma non serve nascondersi dietro un dito, bisogna equiparare. Non possiamo stabilire per decreto quante donne ci devono essere, dobbiamo garantire parità di accesso e di trattamento».

In concreto?

«Abbiamo elaborato un Manifesto in dieci punti che non parla solo di donne ma dice che la diversità è un asset, che il talento non conosce pregiudizi, che l’inclusione crea business, che va recuperata la dimensione etica dell’estetica. Sul tema della parità di genere, Camera della Moda è partner del progetto di Kering “Supporting women in the luxury supply chian” per migliorare le condizioni di lavoro delle donne».

Il punto 10 dice “Non solo parole”, ma chi controlla?

«Nel 2017 abbiamo costituito un Osservatorio che ogni anno verifica in che misura nelle aziende sono stati applicati quei punti. Ne fanno parte le principali maison italiane, da Bottega Veneta a Fendi, da Giorgio Armani a Salvatore Ferragamo».

Quanto è rappresentativa la Camera della Moda?

«I nostri 200 brand complessivamente fanno il 54% dei 93 miliardi di fatturato della moda italiana e danno lavoro a 60 mila imprese, quindi con l’indotto arriviamo al 70%. Siamo la seconda industria del Paese dopo l’automotive, la prima per esportazioni, 70 miliardi (anche se nel 2020 il crollo sarà del 30%), siamo ambasciatori di valori positivi. Ma vediamo che spesso le misure prese dai governi non sono specifiche per il nostro settore. Eppure il 41% del fatturato europeo della moda si fa in Italia, al secondo posto c’è la Germania con l’11% e al terzo la Francia con l’8%».

Torniamo alle donne: oltre ai salari esiste un gap nelle posizioni dirigenziali e creative?

«Per fortuna non c’è tanta discriminazione in questo senso, abbiamo esempi positivi di talento premiato, penso a Alberta Ferretti, Miuccia Prada, Angela Missoni, Silvia Venturini Fendi e a tante altre donne negli uffici creativi.

Per le posizioni dirigenziali non esistono dati statistici ma la differenza si vede a occhio».

Un cambiamento sarebbe redditizio oltre che culturalmente auspicabile?

«Se si promuovesse l’equità di genere nelle imprese di tutto il mondo, il Pil globale aumenterebbe del 26% entro il 2025».

Pensa che il Recovery Fund e le politiche europee possano supportare la moda? Siete stati coinvolti?

«Stiamo lavorando a un piano articolato che presenteremo al governo i primi di novembre. I punti sono tre: sostenibilità, digitalizzazione e formazione. Sostenibilità non solo dei prodotti e dei processi, ma anche ambientale e sociale. Su questo a gennaio lanceremo un master del Milano Fashion Institute con Bocconi, Cattolica, Politecnico e Cnmi. Ci servono gli aiuti del governo per costruire una formazione diversa, creando un ponte tra scuola pubblica e aziende private, bisogna implementare la cultura digitale, ce ne siamo resi conto tutti durante il lockdown. Noi stessi con la digital fashion week».

Com’è andata Milano metà digitale e metà fisica? Lei ha litigato con “Le Figaro” che ha parlato di “fiasco annunciato?”

«Si sono dovuti ricredere. Abbiamo avuto numeri impressionanti, 45 milioni di visualizzazioni e un “earned media value” (tra print, web e social media) di oltre 35 milioni di euro».

E tutti hanno potuto assistere alle sfilate anche da casa. A proposito, pensa che lo smart working possa aiutare le donne?

«Ha aperto una finestra interessante e va promosso trovando le modalità giuste. Le responsabilità vanno divise equamente tra uomini e donne sia sul lavoro che nella gestione della famiglia. Esistono i permessi di maternità e di paternità, ma tante cose iniziate vanno rese effettive. Però sono contento, perché la moda sta cambiando».

In che senso?

«Stanno cambiando gli stereotipi. Nelle sfilate oggi non ci sono più solo le superbelle, ma modelle di taglie diverse, di altezze diverse, Valentino le ha prese per strada. E se la moda apre alla differenza questo è un gran bene per la società. A Milano abbiamo organizzato “We are made in Italy”, un evento con 5 stilisti di colore, siamo stati i primi firmatari del manifesto contro l’anoressia. Abbiamo preso una direzione positiva ma non dobbiamo mollare».

Lei ha due figli maschi, ma se una fosse femmina che consiglio le darebbe?

«Ho una sorella molto più giovane di me, abbiamo perso il papà quando lei aveva 13 anni e io 29, quindi un po’ le ho fatto da padre. Come ho detto a lei e come direi a una ragazza oggi: studia, fai un master, impara le lingue, ma soprattutto segui sempre le tue inclinazioni, non ti fare blandire da chi dice che ci sono percorsi più “adatti” a una donna. Con mia moglie cerchiamo di educare i nostri figli al rispetto delle donne, tutto parte da lì». 

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