I ragazzi e le ragazze di Kiev, giovani ventenni o poco più che conoscono l'Europa, il mondo, hanno studiato all'estero, amano viaggiare ma restano legati al loro paese, alla nostalgia della famiglia, della lingua, come i nostri ragazzi italiani. Come i nostri figli. E adesso si trovano in Ucraina, accanto ai nonni, ai genitori, ai cugini. Nei rifugi. Sotto le bombe. Proiettati in una manciata di ore indietro nella Storia. C'è Artur, che appena può accendere il cellulare manda pezzi di messaggi, semplici, concitati. Sa che le piazze europee sono piene di bandiere ucraine. «Il nostro popolo vi ringrazia, c'è bisogno di sanzioni, di bandire il swift, di chiudere lo spazio aereo, almeno questo. Noi faremo il resto. Vogliamo essere parte dell'Unione Europea, siamo europei». Piovono le bombe. «Siamo motivati, anche i senzatetto aiutano, raccolgono bottiglie per le molotov, ci stiamo preparando, non abbiamo paura». È notte piena quando i russi colpiscono un deposito di petrolio alle porte di Kiev. «È una catastrofe, la puzza arriva fin qui». Alle 4 arrivano voci di uno sfondamento dei russi. «Siamo pronti a combattere, siamo uniti, non abbiamo paura di nulla, ci aiutiamo l'un l'altro per il cibo, portiamo le medicine ai soldati. Prenderemo insieme il caffè a Kiev, te lo prometto».
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LE VOCI
Sofia, 25 anni come Artur, è in un villaggio a 200 chilometri da Kiev.
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