Brexit, passa la linea Corbyn ma è scontro nel Labour: sì al referendum bis

Brexit, passa la linea Corbyn ma è scontro nel Labour: sì al referendum bis
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Lunedì 23 Settembre 2019, 22:28
La base del Labour britannico è ancora in maggioranza con Jeremy Corbyn, il compagno 70enne che ha riportato a sinistra un movimento non più blairiano. Ma sulla Brexit la linea del leader, improntata a un equilibrismo che non pare proprio pagare nei sondaggi in vista della sempre più incombente resa dei conti elettorale con i conservatori di Boris Johnson e le altre forze del Regno, tiene solo per il rotto della cuffia alla Conferenza annuale in corso a Brighton: presa di mira apertamente dal fronte allargato dei sostenitori d'una svolta decisa, ormai favorevoli - inclusi non pochi fedelissimi della stessa corrente 'corbynistà - ad andare alle urne come «partito del Remain».
Senza se, senza ma, senza forse. Il dibattito sulla questione Ue è stato acceso (secondo alcuni media con toni da «guerra civile»), fra rotture interne, minacce di abbandono e annunci di addio veri e propri. Tanto da oscurare tutte le altre proposte approvate a larga maggioranza in materia economica e sociale: per quanto radicali siano state, dalla promessa di nuove nazionalizzazioni strategiche a quella dell'avvio di un percorso di abolizione delle scuole private d'elite a vantaggio dell'istruzione pubblica di base. Mentre solo in parte sono serviti gli appelli dei pontieri di turno all'unità contro la paura di un traumatico no deal o più in generale «la minaccia alla democrazia» rappresentata un pò agli occhi di tutti da Johnson: accusa che domani potrebbe trovare alimento nell'attesissima sentenza della Corte Suprema destinata a decidere sulla legittimità o meno della contestata sospensione del Parlamento fino al 14 ottobre voluta dal premier. Alla fine, in ogni modo, si è votato. E a prevalere, pur fra contrasti e proteste, sono state le due risoluzioni cruciali imposte dalla leadership: documenti che impegnano il partito a convocare un referendum bis sulla Brexit entro 6 mesi, in caso di vittoria alle prossime elezioni, ma rinviano la decisione se impegnarsi a far campagna pro Remain o lasciare libertà di voto sull'alternativa d'un futuro accordo di divorzio soft negoziato con Bruxelles da un (assai ipotetico) esecutivo laburista.
La tesi opposta, presentata dal fronte che voleva fin d'ora la scelta del 'partito del Remain', non è invece passata ma ha avuto consensi diffusi - al grido di 'back remain now' - anche fra alcuni storici alleati del compagno Jeremy ed esponenti di primo piano del suo governo ombra.
Il fronte degli anti Brexit più convinti resta d'altronde nettamente maggioritario fra i parlamentari, come pure nella platea allargata degli elettori del Labour. E ha dimostrato di avere il sostegno non solo del vice leader ribelle Tom Watson (scampato alla minaccia di un siluramento), ma anche di figure emergenti della sinistra interna, come la ministra ombra degli Esteri, Emily Thornberry, che ha portato la sua sfida a viso aperto sul podio. E da almeno uno dei sindacati della tradizionale trincea corbyniana garantita dalle tre maggiori organizzazioni tradunioniste collaterali, che da sole controllano il 50% dei delegati: l'Unison, sganciatasi stavolta dal leader a differenza di Unite e Gmb. Thornberry, protagonista di giornata, ha evitato in particolare le cautele di altri due ministri ombra pro Remain come John McDonnell o Keir Starmer, e ha sostenuto senza mezzi termini che nessun accordo può essere meglio di restare nell'Ue, che i laburisti non possono essere più «neutrali» a questo punto se vogliono provare a vincere alle urne e che il timore di Corbyn di perdere gli elettori della sinistra pro Leave (una minoranza non irrilevante, potenzialmente decisiva in diversi collegi cruciali) rischia di alienargli la maggioranza. Segnali di un vento che potrebbe cambiar presto. E di una corsa alla successione in sostanza già partita sotto traccia: da parte di nemici e amici del vecchio 'Jezzà.
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