Afghanistan, allarme Al Qaeda e Isis: il Paese può tornare zona franca per il terrore

Afghanistan, allarme Al Qaeda e Isis: il Paese può tornare zona franca per il terrore
Afghanistan, allarme Al Qaeda e Isis: il Paese può tornare zona franca per il terrore
di Marco Ventura
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Martedì 17 Agosto 2021, 00:00 - Ultimo aggiornamento: 16:18

Sconfitto sul terreno l’Isis, dissolto il Califfato in Siria e Iraq, ecco che riemerge con prepotenza la minaccia terroristica in Afghanistan, là dove tutto era cominciato. Chi si ricorda più l’espressione coniata dalla Casa Bianca: gli Stati Canaglia. L’Afghanistan, tomba di tre imperi (britannico, russo e adesso americano), nel 2001 era il primo Stato guidato da leader che apertamente davano protezione a un’organizzazione terroristica come Al Qaeda di Osama Bin Laden, con doppie radici nell’Arabia Saudita e in Egitto, un rapido ma decisivo passaggio nel Corno d’Africa, e infine la consacrazione all’ombra di Mullah Omar di cui il nuovo leader talebano, Mullah Baradar, era il giovane numero due, militare e politico.

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Il negoziatore

Oggi Baradar, dalla qatarina Doha, mostra il volto pacifico del negoziatore degli accordi con gli americani e dell’emissario a Pechino, e mentre si complimenta con i guerriglieri per la rapidità della loro avanzata, dice che «dobbiamo esser fieri, è arrivato il momento della prova».

Il momento di «servire la nazione e darle pace, la sicurezza e un futuro». Ma che cosa nascondono in realtà queste parole? L’Afghanistan tornerà a essere uno Stato che non soltanto tollera, ma sostiene politicamente, logisticamente e moralmente i residui nuclei di Al Qaeda (soprattutto), ma anche dell’Isis che si sono rintanati negli anfratti più sperduti del territorio afghano, in quell’area al confine con il Pakistan che è un centro permanente di propagazione delle instabilità regionali? Il terrorismo ha molte facce e sembrava che l’Isis avesse spostato le sue bande, sopravvissute ai droni americani, in Africa, nella fascia subsahariana, approfittando del crollo delle dittature arabe e assoldando i mercenari una volta al servizio di Gheddafi (negli ultimi anni convertito alla lotta al fondamentalismo islamico).

Sembrava che l’insidia maggiore fosse ora la creazione di piccoli feudi, minuscoli Stati invisibili nelle mappe, fuori controllo e ferocemente impegnati nella diffusione di idee estremiste, a protezione di traffici criminali (dal mercato dell’avorio alla tratta degli esseri umani). Adesso, invece, la caduta di Kabul offre l’opportunità, non sappiamo ancora quanto realistica o illusoria, di uno Stato che ridiventa zona franca per i jihadisti, una ridotta nazionale in grado di dare tetto e mezzi alla variegata e sempre movimentata galassia del Terrore.

Il disimpegno (la fuga) degli Stati Uniti e, a seguire, dei loro alleati, è un brutto segnale di debolezza dell’Occidente e il pericolo vero, per chi è nel mirino dei terroristi, è proprio mostrarsi fragili. Gli amici dell’Occidente si sentono ora abbandonati, indifesi. Altri attori diventano protagonisti: la Russia si precipita a blindare le frontiere delle Repubbliche ex sovietiche a maggioranza musulmana esposte all’estremismo perché confinanti con l’Afghanistan; la Turchia è attiva con Erdogan su tutti i fronti regionali; e la Cina si è affrettata a sottolineare i rapporti di amicizia che vorrebbe intrattenere con i talebani, mossa da due motivazioni. La prima è economica e affaristica, perché Pechino non può prescindere dalla stabilità dell’area per il successo del progetto della Via della Seta, globale ma vincolato all’assenza di ostacoli fisici o politici.

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Cellule dormienti

La seconda è legata al terrorismo e a un corridoio, quello di Wakhan, poco noto ma importante, lungo 217 miglia e largo 9, che finisce sui 60 chilometri di frontiera tra Cina e Afghanistan, pur niente in confronto alla vastità dell’Impero cinese. Un corridoio creato dai negoziatori russo-britannici nel 1895, e che corre tra Tagikistan e Kashmir (altra area di grande conflittualità tra musulmani e indù, tra Pakistan e India), e che invece a est conduce alla regione cinese dello Xinjiang. L’etnia e fede degli abitanti del corridoio, legati a un capo miliardario ottantenne residente nel Principato di Monaco, sono un buon cuscinetto rispetto al fondamentalismo talebano. Tuttavia, i cinesi hanno la spina nel fianco della minoranza musulmana uigura.

Al momento prevale la gioia per la vergognosa sconfitta americana, che è un pessimo segnale pure per l’invulnerabilità di Taiwan. Ma in futuro la vocazione terroristica del fondamentalismo dei Mullah afghani potrebbe costituire una minaccia per l’Occidente, dove possono svegliarsi le depresse «cellule dormienti», e per la Russia e i suoi satelliti, per la Cina e per l’India. Un immenso punto interrogativo, con poche illusioni: finora è andata sempre peggio di come ci si aspettasse. Il terrorismo, con i talebani al potere, è una minaccia più che concreta. 

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