Tennis, Amélis Mauresmo alla guida del Roland Garros: «La competenza va oltre il genere»

Amélie Mauresmo ai tempi in cui giocava ancora
Amélie Mauresmo ai tempi in cui giocava ancora
di Francesca Pierantozzi
4 Minuti di Lettura
Mercoledì 27 Aprile 2022, 14:05 - Ultimo aggiornamento: 22 Febbraio, 23:13

Si parlava dei suoi fragili nervi quasi quanto si fantasticava sul suo poderoso rovescio a una mano: oggi quelle “fragilità”, che poi sono discrezione, ascolto, una certa timidezza, dubitare di sé anche quando si trionfa, suonano come una forza, larga quanto le belle spalle (anche su quelle quante gliene hanno dette, quasi fosse una colpa, per una donna, essere forte): Amélie Mauresmo non è mai sembrata tanto radiosa.

Dal 31 dicembre è la prima direttrice donna del Roland Garros. Il suo “Roland”, dal 22 maggio al 5 giugno, come lo chiama quasi fosse una persona: sulla più bella terra rossa ha vinto solo da sedicenne enfant prodige del tennis, i campionati junior, ma non importa. «Questo torneo è stata la mia ispirazione – dice oggi – Ho sognato il tennis e deciso di fare la tennista grazie a Roland, sono arrivata qui a 12 anni, al centro di allenamento nazionale, era il mio parco giochi, ci giocavamo anche a nascondino, la mia carriera qui è stata di alti e bassi, quante emozioni, e poi l’ho conosciuto anche dopo, come commentatrice, come allenatrice, come spettatrice, non credo ci sia qualcuno che conosca questo posto quanto me…».

IL PRIMO PUNTO

Inutile negarlo, anche se a lei – sempre misurata – sembra un po’ una forzatura: per il tennis femminile, e per le donne, è una bella notizia. La conferma che le cose eppur si muovono: Mauresmo è la seconda donna a dirigere un torneo del Grande Slam dopo la canadese Stacey Allaster all’Us Open. E poi c’è anche la bella performance di Donata Hopfen, imprenditrice 45enne, diventata la prima donna a dirigere la Federcalcio tedesca che organizza la Bundesliga. «Sono fiera di questa nomina, è ovvio – dice – ma spero sia stata presa soprattutto per le mie competenze, per quello che posso fare, è importante mettere in evidenza altri aspetti oltre al mio genere, mi piacerebbe che questa domanda, che significa una donna alla direzione del Roland Garros, non servisse più, che si andasse verso qualcosa di più profondamente ugualitario». Eppure Amélie non si tira mai indietro. Le viene naturale, come il rovescio a una mano, come quel 28 gennaio 1999, quando, un secondo dopo la vittoria in semifinale dell’Open di Australia contro Lindsay Davenport corse ad abbracciare la sua ragazza Sylvie. «L’ho fatto senza pensarci ed è stato giusto così – dice oggi – ma forse, se dovessi rifarlo, lo farei diversamente». Su di lei si abbatté una specie di tsunami mediatico al quale, ammette «non ero preparata». E non era solo la società, o i commentatori, ma anche le compagne sul campo. «Ma che spalle ha? Non è la forza fisica di una donna» commentò la Davenport; «ho giocato con un mezzo uomo» disse un’altra volta Martina Hingis. Quanto brucia Amélie se lo ricorda ancora, ma non porta rancore, né ha sviluppato intolleranza per gli intolleranti: «Mi piace capire i punti di vista, preferisco confrontarmi che litigare». Oggi nello sport l’outing è meno difficile, non solo per quanto riguarda l’orientamento sessuale, ma anche sui “fragili nervi”. Amélie preferisce definirli «la vergogna di non vincere».

LE FRAGILITÀ

Se il tennis femminile non ha oggi una sola regina come fu a suo tempo anche Amélie, per temperamento e trofei (più di trenta settimane numero uno mondiale, due Slam, Melbourne e Wimbledon), ha però sportive che della fragilità hanno fatto una forza, come Ashleigh Barty, tra le più longeve numero 1 al mondo che si è ritirata a 25 anni per ritrovare la libertà. E che dire delle lacrime di Naomi Osaka: un’emotiva che non ci ha pensato due volte a rispondere per le rime al collega Stefanos Tsitsipas che non riesce a mandare giù il fatto che tenniste e tennisti debbano guadagnare gli stessi soldi. Al greco che – non senza una punta di acredine – ha suggerito che anche le tenniste giochino al meglio di cinque set e non di tre se vogliono avere diritto allo stesso montepremi, Osaka ha risposto: «Magari lui vuole giocare nove set? Se gli piace tanto allungare le mie partite, allora io allungo le sue». Battibecchi a parte (e comunque la parità maschi-femmine sui prize money è per fortuna ormai la norma per i tornei maggiori) Amélie direttrice del Roland Garros non ha nessuna nostalgia della giocatrice: «Ho smesso quando era giusto (a 30 anni, ndr), fu un sollievo, sapevo che non avrei più vinto quello che volevo, sono felice di averlo fatto». Oggi è mamma di due bambini, Aaron di 7 anni, in prima elementare, e Ayla di 5 anni. Non si trasferirà a Parigi per il Roland Garros, verrà quando serve, ma la casa resta a Anglet, nel paese basco, dove i piccoli vanno a scuola e dove coltiva le sue passioni: il vino e… le tartarughe. Per il torneo parigino ha molte ambizioni: «Vedere le tribune piene di pubblico di giorno e anche di notte! Vorrei un torneo inclusivo, eco-sostenibile, migliorare l’accoglienza dei giocatori e anche degli spettatori, vorrei portarci i giovani e i bambini, farli sognare come sognai io il 5 giugno 1983 (quando Yannick Noah vinse la Coppa dei Moschettieri, ndr), voglio che Roland Garros diventi il torneo preferito dei tennisti».

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