Compriamo di meno e apprezziamo di più, ecco come essere davvero ecosostenibili».
Facile a dirsi soprattutto se lo dice lei, Livia Giuggioli, più conosciuta con il cognome dell’ex marito, l’attore premio Oscar Colin Firth, romana, classe 1969, cuore e creatività italiana in pragmatismo british. Produttrice cinematografica, è stata una delle prime donne del jet set a capire l’importanza di alzare l’asticella sulla cultura ambientale, partendo proprio dall’industria della moda, la seconda più inquinante del pianeta. Così sul red carpet di tutto il mondo ha portato abiti green dando vita a una vera rivoluzione culturale grazie alla sua società Eco-Age, ai Green Carpet Fashion Awards e ai Reinassance Awards. Un messaggio chiaro il suo: creare una rete di sensibilizzazione combattendo il Fast Fashion, lo sfruttamento femminile, mirando ad un futuro di responsabilizzazione, dando spazio alle nuove generazioni e ai giovani leader di oggi.
Giuggioli, come è nato il suo impegno per l’ambiente?
«La mia generazione è cresciuta fuori dal consumismo, dai social media, dalle cose a basso costo, dal fast food o fast fashion. Ricordo quando ero ragazza l’indignazione del primo Mc Donald’s a Piazza di Spagna, a Roma, o l’incomprensione per i pochi amici che avevano un cellulare. Era tutto più “sostenibile” nel vero senso della parola - sostenere nel tempo - perché esserlo era la normalità».
Oggi invece com’è?
«L’esatto contrario: è tutto insostenibile. Consumiamo risorse che sono l’equivalente di due pianeti terra all’anno, siamo bombardati su quello che dobbiamo comprare per essere felici, su quello che dobbiamo mangiare - o meglio non mangiare per essere magri e perfetti - e via dicendo. Mi ricordo lo scrittore Carlo Petrini che tanti anni fa, parlando di Slow Food disse: “come siamo arrivati in un’epoca in cui dobbiamo certificare le cose che dovrebbero essere normali”? Ecco, questa per me è la domanda chiave».
C’è un momento in cui ha davvero compreso che la sostenibilità non è una scelta ma sopravvivenza?
«Viaggiando in giro per il mondo alla scoperta di filiere - sono stata in Bangladesh nelle fabbriche del fast fashion, in Australia per la lana, in Amazzonia per la pelle, in Africa per le miniere di diamanti e via dicendo - ho imparato tantissimo, soprattutto che ci sono milioni di persone, esseri umani e soprattutto donne come me, che sono come schiavi moderni e producono tutte le cose che indossiamo e buttiamo ogni giorno senza cura».
Un esempio?
«Ho letto un articolo sul Guardian che cita delle cifre spaventose: H&M ha lanciato 4.414 nuove collezioni solo sul suo sito americano dall’inizio di quest’anno e Shein - il nuovo super fast fashion cinese che spopola tra i teenagers mondiali, valutato 100 miliardi di dollari - ne ha messe sul mercato, nello stesso periodo, 315mila.
Quindi quale moda è davvero green?