Tiziana Catarci: «Nel digitale tanto lavoro e sempre meno donne. Colpa di modelli sbagliati»

Tiziana Catarci: «Nel digitale tanto lavoro e sempre meno donne. Colpa di modelli sbagliati»
di Valeria Arnaldi
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Mercoledì 28 Ottobre 2020, 11:06 - Ultimo aggiornamento: 20 Novembre, 09:59

Donne e scienze. Nel mezzo, gli stereotipi. È un tema che affonda le radici nella storia - e le mantiene ben salde nella quotidianità - quello che vede le donne “lontane” dalle materie scientifiche. È questione di pregiudizio, appunto: secondo una recente indagine di Boston Consulting Group, per il 70% degli italiani, le donne non sarebbero adatte a ricoprire posizioni scientifiche di alto livello. Ed è questione di numeri: appena dodici donne su mille, in Italia, si laureano in discipline Stem (Science, Technology, Engineering and Mathematics), stando ai dati presentati nell’edizione 2019 di StartupItalia Open Summit. Il problema c’è, si vede e si farà sentire. Abbiamo incontrato Tiziana Catarci, direttrice DIAG-Dipartimento di Ingegneria informatica, automatica e gestionale, all’Università La Sapienza, a Roma.

Le Stem non “attraggono” le ragazze?

«Nelle Stem ci sono biologia e matematica, dove ci sono tante donne, ma anche l’Ict, Information and Communications Technology, dove le ragazze sono pochissime, eppure è il settore che sta cambiando il mondo. Il fenomeno si vede in Italia e in tutto il mondo occidentale. Negli Usa, negli ultimi vent’anni, c’è stata una perdita di dieci punti percentuali nel numero di laureate in computer science. Più si sviluppa il settore, meno ragazze ci sono: un paradosso. In un ambito che ha forte impatto sulla nostra vita, non c’è diversità di genere né di etnia. È pericoloso. Il nostro futuro lo stanno disegnando al 90% maschi bianchi».

Perché questa mancanza di studentesse?

«Gli stereotipi pesano. Si pensi a come è rappresentata la figura dell’informatica nelle serie TV: si tratta sempre di donne particolari, spesso strane, un po’ asociali, con relazioni complicate. Si può pensare che ciò non incida, ma non è così. Non solo. Quando una donna arriva in una posizione importante, è descritta, pure mediaticamente, come eccezionale: è scoraggiante per una ragazzina. Senza arrivare a dire che tutte vogliano fare le veline o influencer, non è vero, di certo è difficile che una bimba dica di voler fare l’informatica da grande».

Il problema, diceva, è tipicamente occidentale.

«Nei Paesi in via di Sviluppo, non c’è o è molto meno evidente. Secondo studi sociologici, ciò dipenderebbe dal fatto che c’è necessità di emergere, trovare lavoro, fare un salto nella scala sociale, non c’è tempo di dedicarsi alle belle lettere. Per me non è questa la vera causa. Parlo con molte ragazze e dalle loro domande si capisce chiaramente. Vedono la donna informatica come una nerd, modello ritenuto inaccettabile, che peraltro non corrisponde alla realtà».

Dunque, un gap dettato da comunicazione e immagine errate?

«Di certo, non è una questione di difficoltà di studi. In medicina, le donne sono il 60% degli studenti. A biologia, intorno al 75%. A Ingegneria clinica, circa la metà, così in quella gestionale. L’immagine della manager è di una donna bella, in posizione apicale. Quella dell’informatica è di una donna chiusa in una stanzetta davanti a uno schermo. Non si capisce l’enorme potenziale dell’informatica.

Il cuore dell’attività è risolvere problemi. E sarà sempre più così. Anche ora con la pandemia, l’informatica è indispensabile ma è vista come servizio, come se nascesse dal nulla. Eppure, se spegnessimo tutte le connessioni Internet, i Paesi sprofonderebbero».

La pandemia ha rivalutato la competenza, le donne che parlano, però, sono poche: il merito femminile sembra, comunque, “pesare” meno?

«Il lockdown ha rivalutato il ruolo della competenza. Fino a ieri, c’era gente che parlava di formazione all’“università del mondo” o “della strada”, cose inascoltabili. Oggi non si sente più. Le donne che parlano, però, sono davvero poche e non ci sono neanche informatici».

Quando si è iscritta a ingegneria, nel suo corso eravate tre ragazze a fronte di trecento ragazzi: è stato difficile?

«Se sei timida, introversa, magari fai fatica a muoverti in un ambito maschile. Io amo le sfide. L’informatica era agli albori ma ho capito subito che permetteva di risolvere i problemi».

Nessuna difficoltà nella carriera in quanto donna?

«In uno dei primi colloqui di lavoro, mi dissero che non avevo la faccia da ingegnere. Il padre di un ragazzo con cui ero fidanzata, mi diceva che se avessi sposato il figlio, avrei potuto non lavorare. Io non ho mai creduto di dovermi nascondere o maschilizzare, ho sempre pensato, però, di dover essere brava. Ancora oggi, in alcuni settori se vuoi essere credibile, devi essere brava il doppio degli uomini».

Candidata Rettore nel 2014, ha ricevuto lettere anonime e attacchi sessisti.

«Sì, una donna viene valutata sempre anche secondo parametri estranei al suo percorso. Accade in tutti i settori. Quando una donna vuole emergere c’è sempre un attacco sessista. Gli uomini non vogliono perdere il potere. In oltre settecento anni di storia della Sapienza, non c’è mai stata una donna rettore. Io ero la prima candidata. In alcuni articoli si è parlato perfino delle mie scarpe».

Il problema della parità di genere è ben vivo.

«Chi dice che non c’è o è stato superato, mente o non conosce la realtà. Le studentesse in medicina sono il 60%, le donne primario forse il 23/24%. Il problema c’è. E se anche un giornale autorevole parlando di due donne premio Nobel scrive “Thelma & Louise”, è evidente che gli stereotipi sono vivi. Magari il giornalista non vede la cosa in quel modo, ma pensa di dover fare quel titolo per rendere il tema comprensibile».

Per le bambine, ora ci sono giocattoli orientati alle Stem, possono aiutare?

«Sì, però nello stesso tempo, c’è chi propone il grembiulino per lui con il righello, per lei con il rossetto. Siamo nel 2020 e sembrano gli anni ‘50. L’educazione deve partire da famiglia e scuola. Il ministro dell’Università ha incaricato un gruppo di esperti di capire come risolvere il problema. Serve uno sforzo strutturale del Paese. I ragazzi possono essere indirizzati, magari facendo presente che il nostro è un settore che non conosce disoccupazione».

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