Dalla guerra in Ucraina alle proteste in Iran: per le donne un anno in prima linea

Da una parte le ucraine che affrontano l’invasione russa e la resistenza, dall’altra le iraniane in piazza per i loro diritti contro il regime teocratico

Una donna ucraina raccoglie le assi del pavimento di una scuola elementare distrutta per prepararsi all’inverno gelido
Una donna ucraina raccoglie le assi del pavimento di una scuola elementare distrutta per prepararsi all’inverno gelido
di Marina Valensise
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Mercoledì 21 Dicembre 2022, 14:41 - Ultimo aggiornamento: 25 Febbraio, 12:08

Sono le donne le protagoniste di quest’anno che muore. Innanzitutto le ucraine ferite a morte, violentate nella loro dignità, torturate nei loro affetti, annientate nei loro corpi.

E poi le iraniane, ribelli al potere teocratico della repubblica islamica, le donne che dopo l’assassinio di Mahsa Animi hanno sfidato a viso scoperto quel regime tirannico, federando intorno a loro la rivolta del mondo libero. Dodici mesi fa nessuno poteva immaginare un anno tanto tragico. Dopo i rigori imposti dalla pandemia, il ritorno alla normalità pareva scontato. Ma il 24 febbraio l’invasione russa con l’esercito di Putin che sfondava i confini dell’Ucraina puntando sul Donbass e addirittura su Kyiv, è cambiato tutto. L’Europa si è ritrovata d’improvviso alle prese con una guerra fuori tempo e obsoleta, frutto di un’ideologia imperiale che tutti credevamo superata.

LA SOLIDARIETÀ

Le prime a reagire sono state le donne. Prima dell’attivista del Centro per le libertà civili Oleksandra Matvijčuk, che ha documentato i crimini di guerra nel Donbass, e ha ottenuto il Nobel per la Pace, sono state le mogli e le madri che hanno lasciato partire per il fronte i loro mariti, fidanzati, figli, padri, fratelli. Le ucraine hanno iniziato a resistere dentro le loro case, ospitando altre donne in fuga coi loro figli dai bombardamenti russi, intessendo una rete di solidarietà per far accogliere in Polonia, in Ungheria, in Italia altre madri, mogli e figlie che come loro che scappavano dalla violenza e dalla violazione di ogni diritto umano. A Mariupol la guerra è scivolata nella tragedia umanitaria con le colonne di profughi bloccate, gli abitanti rintanati come topi nelle cantine dei palazzi sventrati dalle bombe russe, senza gas, senza riscaldamento, senza acqua, senza luce. Le donne hanno difeso la vita cercando di sopravvivere, contando i giorni dell’assedio, combattendo strenuamente la disperazione, raccogliendo i tuberi nei campi, cucinando pasti per i soldati su fornellini improbabili, mentre i loro figli imbracciavano armi che non sapevano maneggiare, e forti della sola fascia gialla e azzurra sul braccio, sfidavano i giovani soldati russi, i cosiddetti puschechnoe miaso, la carne di cannone, mandati a morire da Putin nell’illusione di liberare i russi dell’Ucraina dalla morsa del nazismo, mentre il presidente Zelensky, peraltro ebreo e discendente dei sopravvissuti ai pogrom zaristi e sovietici, rifiutava di darsi alla fuga come consigliava Joe Biden. Le donne ucraine non l’hanno bevuta. Realiste, pragmatiche, fattive, hanno colto subito la portata dell’impostura, battendosi come leonesse per denunciare la menzogna, come Tetyana Bezruchenko, ucraina di lingua russa sposata a un ingegnere italiano e nipote di un veterano della Guerra patriottica del 1941-1945, il quale, secondo lei “si sarebbe rivoltato nella tomba se avesse saputo cosa stava succedendo” nell’Ucraina di 80 anni dopo. Anche in Iran la resistenza al regime degli ayatollah ha per protagoniste donne comuni, studentesse, casalinghe, artiste, impiegate. Anche lì come in Ucraina sono figlie, mogli, madri, giovani fidanzate, ribelli all’imposizione del velo e alla violenza che si abbatte contro chi non lo indossa correttamente come la ventiduenne di Saqquez,

che in vacanza a Teheran con la famiglia, è stata arrestata il 13 settembre dalla polizia religiosa ed è morta dopo tre giorni di coma, per un’emorragia cerebrale in seguito al pestaggio subito dai miliziani islamici.

LA POLVERIERA

La sua morte è stata la miccia che ha dato fuoco alle polveri. Da allora nelle strade iraniane imperversa la protesta. In prima linea ci sono le donne, le ragazze costrette a bardarsi del velo nero e nascondere il rimmel, il rossetto, il reggiseno di pizzo, in conformità al regime poliziesco dei costumi islamici. Da allora i morti non si contano. Se la protesta impazza, con moti intermittenti di simpatia dal libero occidente, dove non poche attrici, artiste, scrittrici si tagliano una ciocca immortalando il gesto in un video col telefonino, al grido di “Donne, vita, libertà”, le vittime innocenti crescono in modo esponenziale, colpendo non solo le attiviste del dissenso, ma le energie vive della società. Aida Rostami, medico trentaseienne, scomparsa pochi giorni fa, è stata riconsegnata cadavere alla famiglia dopo esser stata torturata e uccisa dai miliziani islamici per aver soccorso dei manifestanti feriti a Ekbatan e in altri quartieri occidentali di Teheran.

In una scuola della capitale, una ragazza di quattordici anni è stat arrestata dalle milizie pasdaran per essersi tolta l’hijab: finita in ospedale per un’ emorragia vaginale, è morta dissanguata. Dopo 43 anni di Repubblica islamica l’Iran è in un vicolo cieco, spiega un’esperta come Ladan Boroumand un’iraniana della diaspora responsabile dell’omonima fondazione intestata al padre, l’ex ministro di Shapur Bakhtiar: «La natura del regime di Khomeini non permette alcuna riforma. La guida suprema emana da Dio e opporsi è un crimine da punire severamente. Perché un’autorità che emana da Dio non può sottomettersi alla volontà del popolo». Perciò, l’unica salvezza è in mano alla diaspora e alle donne delle democrazie occidentali che devono reagire facendo pressione per porre fine una volta per tutte sia alla guerra santa di Khomeini contro l’America e l’Occidente, sia all’autocrazia russa ormai sull’orlo del baratro.

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