Uccise la compagna a Roma, pena dimezzata in appello: 16 anni. «Era seminfermo di mente»

Uccise la compagna a Roma, pena dimezzata in appello: 16 anni. «Era seminfermo di mente»
Uccise la compagna a Roma, pena dimezzata in appello: 16 anni. «Era seminfermo di mente»
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Giovedì 28 Novembre 2019, 13:45 - Ultimo aggiornamento: 16:31

ROMA - Per i giudici d'appello c'è una certezza: Francesco Carrieri, il direttore di banca romano che nel maggio 2017 uccise la sua compagna, era «incapace d'intendere e volere» quando colpì la donna. Per questo l'hanno condannato a sedici anni di reclusione prima, di fatto dimezzando la pena rispetto ai 30 anni inflitti in primi grado. La Corte ha disposto per Carrieri anche tre anni almeno di ricovero in una Rems, ovvero in una di quelle strutture sanitarie di accoglienza per condannati affetti da disturbi mentali e socialmente pericolosi che hanno sostituito i vecchi ospedali psichiatrici giudiziari. 

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Si chiude con un dimezzamento di condanna una vicenda che fin dall'inizio ha catturato l'attenzione dell'opinione pubblica. Oggi, la riforma della sentenza è stato motivata con il riconoscimento della seminfermità mentale, ritenuta equivalente all'aggravante dei futili motivi contestata. La vicenda fu ricostruita anche dopo le dichiarazioni dello stesso imputato. Carrieri il primo maggio 2017 uccise la compagna Michela Di Pompeo, insegnante della prestigiosa Deutsche Schule, nella sua abitazione di via del Babuino, nel centro storico di Roma. 

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Al culmine di una lite, la colpì con un peso da palestra uccidendola sul colpo. Fu lo stesso uomo, dopo l'arresto, ad ammettere la sua responsabilità. «Quella sera eravamo rientrati da un weekend fuori - disse - presi il suo telefono per vedere i messaggi, era la prima volta che le controllavo il telefono, forse era successo una volta. Lo avevo fatto per leggere cosa diceva della mia malattia con le sue amiche, qual era il giudizio nei miei confronti, non ho trovato niente d'importante. Alle 5 del mattino la svegliai, le dissi che non volevo tornare al lavoro e ci fu una lite perché lei voleva che tornassi al lavoro. Io dicevo tra me e me: "io non sono un assassino" ma invece l'ho colpita. Poi non sapevo se era viva o morta e sono andato dai carabinieri a costituirmi. Non so perché le ho fatto del male, ho rovinato la sua vita e la vita di tutti». 

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Nel lungo iter processuale, un passaggio significativo si è avuto quando i giudici d'appello hanno deciso di venire a capo in maniera definitiva sulla questione della capacità o meno d'intendere e volere dell'imputato. E l'hanno fatto affidando la verifica a un collegio di periti. Gli psichiatri Gabriele Sani e Massimo Di Genio si sono confrontati con gli accertamenti tecnici disposti ed effettuati in sede d'indagine e nel corso del rito abbreviato.

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In sostanza, due consulenti tecnici (i professori Stefano Ferracuti e Maurizio Marasco) avevano concluso per la parziale infermità di mente, mentre il perito nominato dal gup (Gianluca Somma) per la totale capacità. Il fatto che i tecnici avevano valutato Carrieri cronologicamente in tempi diversi - i primi al momento dei fatti, l'altro dopo un anno - ha portato i giudici d'appello ad affidare il nuovo incarico, concluso con una risposta chiara: al momento dei fatti, l'uomo «versava in condizioni tali da almeno grandemente scemare la capacità d'intendere e volere» e in considerazione della buona risposta alla terapia farmacologia gestita negli ultimi due anni in carcere, «si può escludere la pericolosità sociale in senso psichiatrico, a condizione che non interrompa le cure». Di lì, la conclusione d'appello di oggi, la strada è stata tracciata: sedici anni di reclusione e tre di Rems. Non è escluso, però, il 'passaggiò in Cassazione.

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